Dai libri che leggi, posso giudicare della tua professione, cultura, curiosità, libertà. Dai libri che rileggi, conosco la tua età, la tua indole, quello che hai sofferto, quello che speri. (Ugo Ojetti)
Esistono due motivi per leggere un libro: uno perchè vi piace, l'altro è che potrete vantarvi di averlo letto. (Bertrand Russell)
Succedeva molto raramente che tu sognassi di possedere una donna, dopo la notte di Egina ti era capitato si e no quattro volte e ogni volta era durato pochisimo perchè il timore di non fare in tempo, d'essere condotto dinanzi al plotone prima dell'orgasmo finale, era rimasto in te come un complesso. Stavolta invece fu un sogno assai lungo. Ti sembrava d'avere dinanzi l'eternità e penetravi la donna con calma, coi movimentoi quieti e soavi di un mare tranquillo che lambisce la spiaggia in carezza di spuma, poi si ritira piano, indugia paziente prima di tornare, lambire di nuovo con nuova lentezza, ed era dolce rinviare lo scoppio, l'attimo in cui il mare si sarebbe ingrossato per schiantarsi in una scarica d'acqua ruggente, era squisito gonfiuare l'attesa di una conclusione che non poteva negarsi, che ora si approssimava, di più sempre di più, ancora un poco e l'ultima ondata si sarebbe infranta schizzando i suoi spruzzi gloriosi: Ecco che saliva, veniva, stava per travolgerti, e....."Sveglia, Alekos, sveglia!
L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, esplosione di un
bubbone che ha lungamente covato il suo potenziale infettivo, è un fatto
estremamente grave a prescindere dalle sue ricadute economiche. Ha un
carattere razzista innegabile e non è un fatto isolato, ma espressione
di una tendenza generale, diffusa e contagiante, tra i popoli d’Europa.
Segnala che il rigetto dell’alterità stia facendo un temibile salto di
qualità: l’avversione nei confronti dello straniero risucchia anche il
vicino di casa, lo rende irriconoscibile, un estraneo.
Tra i tutti i narcisismi identitari, il più insidioso è quello delle
piccole differenze, quando le dispute tra contrade diventano un muro
invalicabile. Sostituire la prossimità con l’indifferenza, colpisce
l’apertura alla vita nelle sue radici, cancella l’altro come parte di
sé. La convinzione di poter fare da soli è il primo passo verso il più
catastrofico dei conflitti, quello che si dissocia dal desiderio.
L’analisi del voto rende questa prospettiva, ormai a portata di mano,
raccapricciante. Genitori/nonni hanno votato contro il figli/nipoti, in
grande maggioranza favorevoli alla permanenza. Non è stato un conflitto
generazionale, ma un figlicidio: la rottura della catena di
trasmissione tra le generazioni, il rifiuto di passare il testimone, la
pretesa di istituire il passato come futuro. Non è una bizzarria
inglese: è la mentalità anonima che governa i nostri destini. In
definitiva, cos’è il razzismo se non la più radicale chiusura alle
trasformazioni, l’impossibilità di riconoscersi nel cambiamento che
imprime la presenza di un figlio, del creato comune partorito
dall’incontro e dallo scambio?
Sarebbe bello riporre nelle nuove generazioni le speranze di un
riscatto, tifare per la loro voglia di ribellarsi. Non è così semplice.
Il vecchio governa il mondo impadronendosi del nuovo, corrompendolo. I
giovani inglesi saranno favorevoli all’Europa, ma è stata la loro
massiccia astensione dal voto, pari al fervore per un mondo aperto, a
favorire il campo avversario. Pare che le pessime condizioni
meteorologiche non li abbiano invogliati. L’appuntamento con l’avvenire
può attendere.
Il principio che sottende la nostra esistenza è il vecchio che non
passa: lo stantio. Il cattivo odore lo si percepisce, ma ognuno lo
attribuisce a ciò che preferisce (le scelte abbondano). Si ritiene che
la saggezza della vecchiaia stia nell’esperienza che consente di
calcolare, con uno spirito di prudenza, possibilità e pericoli.
In realtà il vecchio saggio è guidato dalla passione e, memore dei
suoi errori, misura la vita con un’inedita apertura del pensiero e degli
affetti, che lo riporta a sentirsi giovane. I tempi sono ingenerosi con
lui, l’hanno privato del suo specchiarsi nello sguardo ardito dei
giovani. Siamo fermi tra la gioventù appassionata che non addiviene e la
vecchiaia saggia in pensione, in mezzo ai contabili di tutte le età:
l’aritmetica è la loro arte del vivere.
Il legame tra uno sviluppo tecnologico impressionante e la produzione
crescente di malessere, mostra che non è la crisi economica a
determinare la crisi etica (il disagio della civiltà in cui siamo
immersi): è vero l’opposto. La fredda gestione numerica del lavoro e
delle risorse, la dittatura impersonale che ci domina, è espressione di
una ripetizione del medesimo. Al raggrinzamento della vitalità di un
corpo sociale raffermo, corrisponde una concentrazione immensa dei beni
materiali.
Non sono beni finalizzati a un piacere reale, ma a riprodurre gli
ingranaggi che li producono. Il trionfo annunciato dello scheletro sulla
carne viva.
[Sarantis Thanopulos 2/07/2016]
Poco più di un mese fa è stata istituita la «sala di lettura»
presso il Ministero dello Sviluppo Economico del Ttip, il trattato
euro-americano sul libero commercio. Una «sala lettura» per permettere
ai parlamentari di leggere la bozza dei negoziati in corso. 800 pagine
(in nove plichi) da leggere in un’ora (questo il tempo concesso),
lasciando fuori della sala di lettura telefonino e computer, senza la
possibilità di fare le fotocopie e sotto il controllo vigile di un
funzionario del ministero: infatti si possono prendere solo appunti ed è
vietato ricopiare le frasi del trattato.
Infatti la bozza del trattato è «segreta»: gli si può dare
un’occhiata, ma non troppo. Il Ministro Calenda ha detto che i
negoziatori non possono farsi “imbrigliare” dal parlamento e si oppone
al diritto dei parlamenti nazionali di ratificare l’altro trattato
gemello (tra Unione Europea e Canada): il Ceta. In realtà è il
parlamento ad essere imbrigliato (e tenuto all’oscuro) dai negoziatori
europei e dal business delle multinazionali (americane ed europee), le
vere beneficiarie di questo trattato.
Un trattato che costringerà gli europei (in cambio dell’abbassamento
dei dazi americani) ad allentare gli standard ambientali e sanitari su
una miriade di prodotti, beni e servizi: dal settore agroalimentare (il
cibo che ci mangiamo) a quello tessile, dai servizi pubblici al welfare.
Dalle etichettature dei prodotti (avremo meno informazioni su cosmetici
e prodotti alimentari) alla sicurezza delle automobili (i test per la
sicurezza degli abitacoli saranno ridotti al minimo), dalle
denominazione di origine (che fine faranno i nostri Dop e Docg?) agli
Ogm (cui si danno nuove chances) fino al mancato rispetto delle
convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: il Ttip è una
sorta di Waterloo europea per i diritti sociali e dei lavoratori, per
la sicurezza alimentare, per la coesione sociale del nostro continente,
per la democrazia. Ci rimetteranno anche i piccoli produttori, che
saranno spazzati via dalle nuove regole.
Il tutto sacrificato sull’altare degli interessi delle
multinazionali, di una visione ideologica del libero commercio, della
supremazia di un mercato senza limiti. Anche a costo di dar vita ad una
sorta di arbitrato privato cui gli Stati saranno chiamati a rispondere,
nel caso approvino leggi a tutela dei consumatori e dei cittadini (ma
che danneggino le multinazionali).
La potestà legislativa degli Stati sarà messa sotto tutela dalle
imprese e il principio di precauzione (cioè la cautela su aspetti
controversi riguardo alla salubrità di prodotti e merci) andrà alle
ortiche: l’onore della prova (se un prodotto fa male) graverà sulle
spalle di cittadini e consumatori.
Il prossimo 11 luglio inizierà un altro round di negoziati a
Bruxelles tra europei ed americani. Non è detto che si concluda
positivamente. I britannici erano tra più strenui sostenitori del
trattato e con la Brexit i neoliberisti della Commissione perdono un
importante alleato. La Francia si oppone a tante parti del trattato (che
danneggerebbe numerosi suoi beni e servizi: prodotti alimentari,
settore audiovisivo,), mentre l’Italia, con il ministro Calenda,
continua ad essere allineata nelle schiere degli ortodossi del Ttip.
La campagna Stop Ttip (che organizza il prossimo 5 luglio alla Camera
dei deputati un importante confronto con il Ministro dello Sviluppo
Economico) invita il nostro governo alla trasparenza, al coinvolgimento
del parlamento e dice una cosa che va sostenuta: bisogna togliere il
mandato di negoziare ai funzionari di Bruxelles. Bisogna ricondurre il
potere di decidere su materie così importanti al parlamento europeo e
alle assemblee elettive nazionali.
Magari qualcuno, su a Bruxelles, può pensare che dopo la Brexit, si
tratta ora di dare un forte segnale di decisionismo europeo, accelerando
e concludendo la trattativa sul Ttip. Sarebbe una sciagura che
pagheremmo cara: un ulteriore regalo al neoliberismo, alle
multinazionali e alle lobby. Così si costruisce l’Europa dei mercanti,
non dei cittadini. E non si va lontano.
[Giulio Marcon 1/07/2016]
A tre giorni dal più grande evento storico ed istituzionale
europeo dal Secondo dopoguerra, al pari della caduta del muro di
Berlino, il paese si confronta con le conseguenze della decisione presa
dai 17 milioni di elettori che hanno votato per l’uscita dalla Ue. Il
clima è chiaramente ancora di sgomento, come evidenziano le prime pagine
di lunedì di due quotidiani agli antipodi: al posto delle consuete
soubrette e calciatori, Metro mostrava una foto notturna di Westminster
col titolo “Le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno”, mentre
sulla prima del Financial Times campeggiava un lugubre sfondo nero.
«Almeno il titanic aveva un capitano», scriveva il Guardian in un
editoriale.
Pur essendo ridotto politicamente a un ologramma, è ancora David
Cameron quel capitano, e in quella veste ha presieduto la prima riunione
di gabinetto dopo il quasi singhiozzante annuncio di dimissioni venerdì
scorso. Il suo portavoce ha subito escluso che la strampalata
iniziativa di indire un secondo referendum a rettifica di quello che ha
appena sancito l’ineluttabile Brexit si possa praticare, con buona pace
dei tre milioni – parte di cui era gonfiata dall’intervento di alcuni
hacker – di firme che hanno intasato in poche ore il sito delle
petizioni online del governo. Ciononostante, la questione rimane in
piedi: a parte l’avvocato Geoffrey Robertson, che, facendo leva
sull’oralità della costituzione, sempre dalle pagine del Guardian
avverte che è comunque il parlamento britannico a dover approvare
l’avvio del ritiro dall’Europa, c’è la netta opposizione di Nicola
Sturgeon, che non ci sta a vedere la devoluta Scozia, in maggioranza per
il remain, trascinata fuori contro voglia dall’Europa. Già venerdì
scorso, Sturgeon aveva detto chiaramente che un nuovo referendum
scozzese è probabile.
Cameron ha poi parlato ai Comuni nel primo pomeriggio, delineando i
futuri passaggi della negoziazione per l’uscita a fronte di quella che
sarà la sua imbarazzante comparsa davanti ai colleghi europei a
Bruxelles martedì. Ha annunciato la costituzione di una task force
amministrativa che se ne occuperà, con l’apporto di figure tra le
«migliori e più intelligenti» di Westminster sotto la guida di Oliver
Letwin e cui parteciperanno i parlamenti devoluti di Scozia e Galles,
oltre che l’amministrazione della capitale. Ha condannato gli episodi di
razzismo e intolleranza che hanno preso di mira membri della comunità
polacca e cittadini perfettamente britannici di origine asiatica e
assicurato che non vi sarà alcun mutamento nello status dei cittadini
comunitari che vivono in Gran Bretagna. Ha poi ribadito le assicurazioni
che il cancelliere George Osborne aveva fatto qualche ora prima allo
scopo di rassicurare sulla tenuta dell’economia.
L’ologramma sarà poi sostituito con una persona politicamente in
carne ossa subito dopo l’estate, almeno stando al 1922 Committee, un
comitato di backbenchers conservatori che ha stabilito una tabella di
marcia: le nomination dovranno essere rese note entro questo mercoledì, e
il risultato raggiunto entro il prossimo 2 settembre. Ha anche ribadito
che la clausola 50 che dovrebbe mettere in moto la negoziazione del
distacco non sarà posta in opera prima di ottobre, ignorando le ripetute
pressioni dei ministri degli esteri Europei per una maggiore celerità.
Quanto alla rassicurazione di Osborne, non ha rassicurato un granché.
La volatilità in borsa è ripresa poche ore dopo ieri il ministro
dell’economia faceva il suo discorso. Le banche britanniche sono
crollate per via della loro cospicua esposizione. La vendita delle
parzialmente nazionalizzate Royal Bank of Scotland e Lloyds, che Osborne
voleva vendere per abbassare il debito non saranno affatto vendute. Sia
Barclays che Lloyds hanno perso il 30% del valore, la sterlina è scesa
contro il dollaro a livelli del 1985 dopo che i mercati asiatici se ne
erano liberati a favore dello Yen. Il budget di emergenza che aveva
minacciato in campagna referendaria, attirandosi accuse terroristiche,
non si è materializzato.
Quanto al nome del futuro leader, la scelta è abbastanza ristretta, e
i nomi più papabili sono quelli di Johnson e Theresa May. Nella loro
prima conferenza stampa all’interno del cabinato che fungeva da loro
quartier generale, Gove e Johnson sembravano due senili fanciulli
scappati di casa e ritrovati dalla polizia sani e salvi dopo febbrili
ricerche. La loro vittoria, ottenuta grazie – e soprattutto – alla
trucida retorica razzistoide dei creativi di casa Farage, li mette ora
di fronte a una serie di test per cui non li si sospetta granché
preparati. Dovranno fare una serie di marce indietro soprattutto con
quelli che hanno votato leave dopo aver visto il gaglioffo poster di
Farage (quello con la scritta “punto di rottura” davanti a una fila di
profughi siriani) e che ora si aspettano l’impossibile chiusura delle
frontiere. Il loro dilemma principale? Stare nel mercato unico e non
poter fare nulla sull’immigrazione, o uscirne innescando una quasi certa
contrazione dell’economia.
[Leonardo Clausi 28/06/2016]
Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel
giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al
portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide.
Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un
«cittadino onesto» e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia,
quella vera, silenziosa e normale.
Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E
tanti “nipoti”. Non c’è mai stato il mondo delle associazioni
imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di
Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero
Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel
lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato
sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al «caro
estortore».
Ucciso d’estate, Libero. Era il ’91, a Palermo quasi ogni giorno un
morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande
d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli
adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome,
nessun logo: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza
dignità». Era il 29 giugno del 2004.
Tredici anni senza Libero. «Mi chiama una giornalista e mi chiede
cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori.
Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li
avrei adottati come nipoti miei e di Libero», racconterà Pina Maisano. E
il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: «Siamo i tuoi
nipoti». Con quell'”adozione” particolare nasceva Addiopizzo,
l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà
l’iniziativa del consumo critico antimafioso: un bollino per ogni
negozio antiracket “certificato”. E “rinasceva” anche Pina Maisano, non
più la vedova di Libero Grassi, ma la “nonna” dei ragazzi che sfidano il
racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando
sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano.
La diffidenza che si portava dentro
Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni
dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta
nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in
più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella
diffidenza che si portava dentro.
Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma.
Un anno dopo, era il ’92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo
la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva
appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta
in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel
collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo
tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai
“nipoti” di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì
il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie
di legalità erano iniziate molto prima del ’91. A capo della Sigma,
terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli
anni Sessanta s’era battuto perché il «sacco di Palermo» di Vito
Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di
Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda
locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la
città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi
contro la lobby dei “bombolari”. Aveva poi creato la Solange
impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per
l’energia solare.
E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a
Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un
certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e
chiedeva aiuto. «Era Marco Pannella – ricorderà Pina Maisano – tra lui e
Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto:
i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a
più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà
di tutti i giorni». È così che Grassi si iscrive al Partito radicale,
dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà
vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione
Palermo, votato all’antimafia per denunciare «il sistema di potere Dc»
come «espressione della “borghesia mafiosa”».
Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano
chiederà conto a Giulio Andreotti. «Era il giorno in cui la giunta per
le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale
contro di lui – racconterà Pina – Il primo documento a disposizione, 250
pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo,
Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli
altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana,
erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di
chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione,
non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino,
quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?». Il «divo Giulio»
promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la
sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del
senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel
vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la
memoria: «Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di
un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti». Due mondi diversi.
Due mondi lontani.
Senza guardarlo negli occhi
Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il
killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia
lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò
alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per
Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima
scrisse al «Caro estortore…», pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni
anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive:
«Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso,
ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali,
dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato». Parole dure,
parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice,
Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato
acquistare la “protezione” dei boss, quando il presidente degli
industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in
risposta a Grassi, che «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Adesso che Pina non c’è più, tocca ai “nipoti” di Addiopizzo. «Hai
segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere
seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo
stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua
sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della
tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare
insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che
trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in
capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo
cresciuti. Grazie, nonna».
[Alfredo Marsala 9/06/2016]
In qualunque città cinese ci si trovi, si può star certi di
imbattersi in ristoranti con la vetrina abbellita da uno striscione
verde e parole scritte in arabo. In caratteri cinesi, questi ristoranti
annunciano lamian (un tipo di spaghetti freschi, tirati a mano), e manzo
e agnello spolverati di cumino. Ristoranti piccoli e a buon mercato,
decorati all’interno da grandi poster di panorami montani e minareti.
I proprietari e gestori di questi locali halal appartengono al gruppo
etnico-culturale cinese hui. È la seconda «etnia» cinese musulmana più
importante del paese, subito dopo gli uiguri. Si tratta di più di dieci
milioni di persone, concentrate nelle regioni del nord-ovest ma sparse
anche in tutta la Cina, ma che, contrariamente agli uiguri del Xinjiang,
parlano mandarino, e i vari dialetti locali dei posti in cui vivono.
Gli hui sono particolarmente numerosi nel Gansu, tanto a Lanzhou
(capitale provinciale e patria dei lamian), che a Linxia, una cittadina
detta «piccola Mecca cinese»; così come nel Ningxia – la «regione
autonoma» a maggioranza hui, dove è appena stato costruito un parco a
tema «islamico» per turisti – e nello Shanxi, dove la presenza di questi
musulmani assimilati è maggiormente vistosa.
Ma nell’intera Cina i cittadini hui occupano le strade e i quartieri
intorno ai loro luoghi di culto, e sono facilmente identificabili: le
donne portano l’hijab, lasciando dunque il volto scoperto, e gli uomini,
con appena degli accenni di barba, indossano calotte ricamate. Presenti
in Cina da secoli, sono separati dal resto della popolazione in
particolare dai tabù alimentari.
E se per la maggior parte dei cinesi l’idea di non mangiare carne di
maiale è poco appetibile, nessun ristoratore in Cina si stupisce alla
richiesta di piatti senza lardo o darou, la «carne grossa»: l’islam
degli hui è profondamente parte della Cina. Gli hui sono infatti figli
di un meticciato di origine mercantile: i commercianti arabi e persiani
arrivarono in Cina fin dal VII secolo, sia lungo la Via della Seta che
attraversava l’Asia Centrale che soprattutto lungo quella marittima, che
arrivava a Guangzhou (Canton). Erano i secoli della dinastia Tang
(618-907), la più cosmopolita della storia cinese, e gli hui ottennero
un raro favore imperiale: l’autorizzazione a sposare donne cinesi, dopo
che, vuole la leggenda, l’imperatore Taizong (626-649) sognò che dei
saggi uomini dall’Occidente in turbante verde l’avrebbero aiutato a
risolvere svariate difficoltà di governo.
Da allora, gli hui esistono in Cina in modo parallelo, assimilati al
resto della popolazione per lingua ed aspetto, presenti in ogni mercato,
in ogni porto, in ogni città di transito. Sono i musulmani grazie a cui
la Cina può mostrare di non avere un problema con l’Islam per se, ma
solo con il «separatismo uiguro». Anzi: percorrendo le aride strade del
Ningxia e del Gansu le moschee nuove, appena costruite sono
onnipresenti, ed il richiamo alla preghiera del muezzin risuona forte,
diffuso da altoparlanti elettrici proibiti nel vicino Xinjiang.
La loro presenza centenaria in Cina fa sì che non solo l’Islam sia
visto come una religione in un certo senso di casa, malgrado le
sanguinose rivolte musulmane che ebbero luogo nel 19esimo secolo, quando
la dinastia Qing (1636-1911) mostrava le sue debolezze, ma anche che la
loro esistenza possa essere utilizzata come ponte privilegiato fra la
Cina e i Paesi a maggioranza musulmana. È anche un elemento importante
con cui Pechino promuove la sua spinta verso Occidente del progetto «One
Belt One Road», serie di iniziative diplomatiche e di infrastrutture
con cui la Cina vuole consolidare la sua presenza nel mondo.
Contrariamente agli uiguri conquistati e colonizzati in epoche più
recenti, gli hui non hanno rivendicazioni territoriali, e non subiscono
la convivenza con gli altri cinesi come l’invasione della loro terra
ancestrale. La moschea di Huisheng, a Guangzhou, con accanto il più
antico cimitero musulmano cinese, fu eretta più di 1.300 anni fa (e
ricostruita a varie riprese), quando Taizong approvò che i mercanti
arabi risiedessero in Cina. Dagli anni Ottanta ad oggi, è stata meta di
pellegrinaggi religiosi, e di visite di potenziali investitori dal
Sud-Est Asiatico musulmano e dai Paesi del Golfo.
Scambi grazie a cui Pechino vorrebbe proporre la vicina Hong Kong
come piattaforma finanziaria musulmana, e affermarsi come primo
esportatore al mondo di cibo halal e altri prodotti «islamici» (in
particolare di abbigliamento ed elettronica) con parchi industriali
appositi.
Ma negli ultimi anni nemmeno la comunità hui è stata immune dalle
tensioni politiche, e dalle seduzioni del salafismo. Musulmani
sinizzati, certo, ma non per questo indifferenti a quanto avviene nel
resto del mondo e della Cina: man mano che la repressione in Xinjiang ha
portato all’arresto degli imam considerati troppo poco patriottici,
ecco che gli imam hui hanno dapprima sostituito i loro confratelli
uiguri, scontrandosi però con la stessa interferenza religiosa. Ed anche
fra gli hui – che non hanno le stesse difficoltà ad ottenere un
passaporto riscontrate invece dagli uiguri – si trovano giovani studenti
islamici rientrati dall’Arabia Saudita determinati a rendere
l’islamismo della loro comunità più «puro» e vicino al wahabismo
saudita. Diverse scuole coraniche, del resto, sono state recentemente
chiuse, e non è più permesso accettare finanziamenti esteri per la
costruzione delle moschee.
Una radicalizzazione lenta e fin’ora poco visibile, saltata
maggiormente alla ribalta lo scorso dicembre, quando Daesh per la prima
volta ha diffuso via internet una canzone in mandarino, in cui incita i
veri musulmani a «svegliarsi» e «impugnare le armi per combattere». La
voce registrata ha un accento del nord-ovest, forse proprio del Gansu, e
l’episodio, che ha ricevuto scarsa pubblicità in Cina, sembra essere
stato però preso seriamente dalle autorità. Gli sviluppi di questa
relazione poco nota sono dunque tutti da osservare.
[Ilaria Maria Sala 8/06/2016]
Fra i paesi che per la prima volta si affacciano in Laguna, come
presenza inedita alla Biennale Architettura, quest’anno ci sarà anche la
Nigeria (gli altri sono Filippine, Seychelles e Yemen). A dialogare con
il tema scelto dal curatore Alejandro Aravena – Reporting from the front – ci sarà così l’artista e architetto Ola-Dele Kuku con la sua mostra Diminished Capacity allestita allo spazio Punch, da oggi al 27 novembre.
Lo sguardo sui mondi abitabili del futuro comincia dunque da un
continente-mosaico come l’Africa in uno spazio espositivo che perde i
suoi connotati e in cui vari «oggetti feticcio inviteranno i visitatori a
porsi degli interrogativi», come spiega la curatrice Camilla Boemio. E
già l’installazione centrale suonerà come un avvertimento: Africa is not
a country! è, infatti, la grande scritta al neon che viene associata
alle prime parole della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Ola-Dele Kuku, studi a Los Angeles, vive e lavora a Bruxelles, ha una
posizione obliqua rispetto all’architettura. Non ama l’idea di
«funzionalità» e preferisce introdursi in quel mestiere sfoderando una
buona dose di esercizio critico. «L’architettura è una esperienza
continua, un’evoluzione – afferma -. È anche un principio di pura
identità. Gli egiziani facevano piramidi, i greci erigevano colonne, i
romani disegnavano archi. Oggi, l’architettura finisce per essere un
mero edificio, occupato da persone che vivono con stili e adattamenti
diversi. Io la considero una forma di deterioramento. Manca l’aspetto
spirituale, quella forza trainante che conduce a rappresentare l’ignoto,
a catturare qualcosa di immateriale. L’economia domina e non c’è
respiro per le arti. Forse le nostre società, confrontandosi con la
nozione di conflitto, disastro e distruzione, riattiveranno alcune
risposte».
Cosa ha voluto indicare nel titolo, insistendo su quella «capacità ridotta»?
Le aspirazioni degli individui si esprimono in termini di apprensione
psicologica o di aspettativa rispetto ai desideri e alla loro
realizzazione. Così l’analisi spazio-temporale della interrelazione tra
persone e ambiente sociale può fornire una sintesi di geografie
comportamentali, culturali, storiche e politiche. I limiti spaziali e
temporali sono meccanismi che facilitano e frenano le imprese umane e si
riflettono sulla comunità, soprattutto nella disposizione e
manipolazione del territorio geografico. Considera il conflitto un motore creativo, spiazzante?
È parte integrante della formazione ed evoluzione di un sistema sociale.
Il conflitto è un dispositivo che istiga al cambiamento, evitando
l’omologazione. È un fenomeno che si materializza sotto forma di vari
«eventi vitali» – guerre, catastrofi naturali, emigrazioni, nascite e
morti. Sono queste le «varianti» che preludono alle trasformazioni della
società. Il conflitto è un processo di modificazione che stimola
adattamenti e nuove condizioni di sviluppo. In genere, la sua
ricomposizione è un obiettivo primario della progettazione sociale.
Richiede l’abilità di anticipare gli eventi futuri, valutando le
soluzioni e anche la capacità di un pensiero originale, in grado di
ottenere soluzioni soddisfacenti.
Guerre, dislocamenti e calamità naturali stanno spostando i confini. Si
creano così territori che manifestano uno sviluppo discontinuo e un
governo non sostenibile. È un processo di transizione che genera inediti
modelli demografici. In più, la concentrazione sproporzionata della
popolazione in specifiche aree rende necessari elementi di controllo.
Questi territori diventano piattaforme fondamentali per alcuni
interventi innovativi, che però richiedono un approccio sistematico e
costante nel tempo. I corsi per una ricostruzione post-conflitto
dovrebbero entrare nelle istituzioni accademiche dove si studia
l’architettura, il design, le arti applicate, la sociologia, la
psicologia e la letteratura. Con il padiglione della Nigeria per la prima volta alla
Biennale c’è la possibilità di riscattare l’Africa dagli stereotipi e
dalle letture neocoloniali. Concorda?
Parole come Londra, Parigi o Roma non avrebbero senso se non vi fosse
alcun riferimento immaginabile, nessuna associazione. Così Parigi
potrebbe essere la proiezione mentale della Torre Eiffel, Londra del Big
Ben e Roma si può ispirare al Colosseo. Sono immagini che trasmettono
una raffigurazione delle realizzazioni e le potenzialità delle persone. A
loro volta, illustrano la sintesi di individuo-ambiente, la loro
interdipendenza. Cotonou, Ouagadougou, Lome, Freetown, Accra, Yaoundé,
Ijebu-Ode e altre grandi città africane devono ancora trovare le loro
immagini simboliche, un’identità. Credo che l’ostacolo maggiore sia
l’idea sbagliata che scaturisce da un’errata interpretazione della
differenza tra cultura e tradizione. La tradizione è un concetto che si
riferisce al passaggio di credenze da una generazione all’altra. La
credenza dà fiducia a ciò che è sconosciuto e lo rende vero e reale, non
ragiona su ciò che è buono o ideale, è opposta al cambiamento. Nelle
società in evoluzione, le dinamiche culturali – muovendosi in parallelo
alla sensazione ambigua e statica della tradizione – saranno sempre
fonte di disorientamento e polemiche. Oggi non ha senso lottare per
un’identità tradizionale: le società, attraversate da molteplici
tendenze, sono in perenne metamorfosi. I mutamenti sono le uniche
certezze. Il Cultural Mapping Project, in corso dal 2002, è
stato pensato da me in collaborazione con L-Arn (Laboratorium – Academic
Research Network) di Bruxelles e con The Creative Intelligence
Association di Lagos, in Nigeria. È il risultato di intensi dibattiti
accademici e dello studio di casi concreti, che indagavano la
possibilità di rigenerare le città africane contemporanee. Nella sua installazione, lei ha tenuto a specificare che «Africa is not a country»…
L’errore più comune è l’uso improprio che si fa della parola «Africa».
Al momento, ci sono cinquantatré paesi in Africa, ognuno con una
distinta identità culturale. Quindi, l’Africa non è un paese, ma un
continente. Pertanto, i valori di ogni paese sono le strutture
simboliche vitali che servono per costruire l’immagine di quel luogo
stesso. È importante la sua origine yoruba nelle pratiche artistiche?
«Yoruba» non riguarda solo le persone. È una religione, una filosofia e
una struttura sociale. Il cosmo yoruba comprende la consapevolezza dei
limiti temporali dell’essere, in altre parole invalida ogni valore
assoluto. Filosofia e religione yoruba sono sopravvissute a quattrocento
anni di schiavitù, sono ancora rilevanti in Brasile, Cuba, Haiti e in
altre società che hanno avuto a che fare con la tratta degli schiavi
provenienti da «Yorubaland».
Ola-Dele Kuku
Lei vive a Bruxelles, città con un forte métissage culturale,
divenuta adesso il crocevia della paura. Possono l’architettura o
l’arte arginare la deriva securitaria e la tentazione dell’Europa di
reinnalzare muri e barriere?
Non va dimenticato che il Belgio è stato il campo dove si sono svolte
alcune delle più grandi battaglie della storia – da Napoleone a Hitler,
da Waterloo a Dunkerque! Ora Bruxelles è la capitale dell’Unione
europea. La mia domanda è: «Perché tutti scaricano i loro problemi in
Belgio?». L’architettura dei muri e delle barriere ha una lunga storia
in Europa – dal Vaticano a Buckingham Palace. Anche il giardino
dell’Eden era recintato, Adamo e Eva furono espulsi. Proprio come il
cuore è nascosto nel corpo, ciò che è prezioso richiede protezione. Il
muro è uno dei mezzi più efficaci di separazione per reagire alla paura
collettiva di una intrusione (naturale o antagonista), e sembra
rivelarsi fondamentale durante la formazione di una società.