Dai libri che leggi, posso giudicare della tua professione, cultura, curiosità, libertà. Dai libri che rileggi, conosco la tua età, la tua indole, quello che hai sofferto, quello che speri. (Ugo Ojetti)
Esistono due motivi per leggere un libro: uno perchè vi piace, l'altro è che potrete vantarvi di averlo letto. (Bertrand Russell)
Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel
giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al
portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide.
Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un
«cittadino onesto» e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia,
quella vera, silenziosa e normale.
Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E
tanti “nipoti”. Non c’è mai stato il mondo delle associazioni
imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di
Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero
Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel
lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato
sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al «caro
estortore».
Ucciso d’estate, Libero. Era il ’91, a Palermo quasi ogni giorno un
morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande
d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli
adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome,
nessun logo: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza
dignità». Era il 29 giugno del 2004.
Tredici anni senza Libero. «Mi chiama una giornalista e mi chiede
cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori.
Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li
avrei adottati come nipoti miei e di Libero», racconterà Pina Maisano. E
il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: «Siamo i tuoi
nipoti». Con quell'”adozione” particolare nasceva Addiopizzo,
l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà
l’iniziativa del consumo critico antimafioso: un bollino per ogni
negozio antiracket “certificato”. E “rinasceva” anche Pina Maisano, non
più la vedova di Libero Grassi, ma la “nonna” dei ragazzi che sfidano il
racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando
sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano.
La diffidenza che si portava dentro
Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni
dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta
nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in
più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella
diffidenza che si portava dentro.
Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma.
Un anno dopo, era il ’92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo
la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva
appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta
in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel
collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo
tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai
“nipoti” di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì
il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie
di legalità erano iniziate molto prima del ’91. A capo della Sigma,
terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli
anni Sessanta s’era battuto perché il «sacco di Palermo» di Vito
Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di
Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda
locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la
città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi
contro la lobby dei “bombolari”. Aveva poi creato la Solange
impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per
l’energia solare.
E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a
Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un
certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e
chiedeva aiuto. «Era Marco Pannella – ricorderà Pina Maisano – tra lui e
Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto:
i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a
più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà
di tutti i giorni». È così che Grassi si iscrive al Partito radicale,
dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà
vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione
Palermo, votato all’antimafia per denunciare «il sistema di potere Dc»
come «espressione della “borghesia mafiosa”».
Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano
chiederà conto a Giulio Andreotti. «Era il giorno in cui la giunta per
le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale
contro di lui – racconterà Pina – Il primo documento a disposizione, 250
pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo,
Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli
altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana,
erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di
chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione,
non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino,
quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?». Il «divo Giulio»
promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la
sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del
senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel
vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la
memoria: «Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di
un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti». Due mondi diversi.
Due mondi lontani.
Senza guardarlo negli occhi
Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il
killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia
lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò
alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per
Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima
scrisse al «Caro estortore…», pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni
anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive:
«Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso,
ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali,
dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato». Parole dure,
parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice,
Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato
acquistare la “protezione” dei boss, quando il presidente degli
industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in
risposta a Grassi, che «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Adesso che Pina non c’è più, tocca ai “nipoti” di Addiopizzo. «Hai
segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere
seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo
stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua
sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della
tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare
insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che
trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in
capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo
cresciuti. Grazie, nonna».
[Alfredo Marsala 9/06/2016]