Nagano è una prefettura fra le più grandi dell’arcipelago nipponico e
senza dubbio quella più ricca di catene montuose e di zone
verdeggianti. Situata nella zona centrale del Giappone, prima del
periodo di restaurazione Meiji la zona era conosciuta come Shinano e fra
le sue località più importanti c’era sicuramente Matsumoto, città che
ha nel vecchio castello, detto «castello corvo» per il suo colore
esterno nero, il suo simbolo più importante. Non molti sanno però che
proprio a Matsumoto nel 1929 nasce una delle artiste giapponesi più
importanti e popolari a livello internazionale che l’arcipelago abbia
visto prosperare in questi ultimi 50 anni, Yayoi Kusama. Quarta figlia
di una famiglia della borghesia alto media giapponese, Kusama fin da
piccolissima soffre di allucinazioni e visioni che la accompagneranno
per tutta la vita.
Il tratto ricorrente ed il marchio di fabbrica per cui è diventata
famosa sono senza dubbio i pois colorati con cui comincia ad inondare le
tele poco più che ventenne, ma che compaiono per la prima volta a soli
dieci anni quando ricopre con questi cerchi colorati la figura di una
donna col kimono.
Successivamente queste sfere andranno a coprire anche gli interni
della sua abitazione e del suo studio ed infine perfino i corpi dei suoi
assistenti. L’ossessione per questi pois deriva direttamente dalle sue
allucinazioni ed è una sorta di esternalizzazione di questa visione
ossessiva che è parte integrante dell’essere dell’artista. Secondo le
sue stesse parole «un pois ha la forma del sole, simbolo dell’energia
del nostro mondo e della vita, ma anche quello della luna, calma,
rotonda, morbida, senza senso e senza conoscenza. I pois diventano
movimento…e sono la strada per l’infinito».
A fine anni cinquanta Kusama si trasferisce negli Stati uniti dove
conosce, frequenta, si ispira e a sua volta ispira gli artisti americani
dell’avanguardia dell’epoca, ritorna in Giappone nel 1973 ma le sue
condizioni mentali sono peggiorate e cerca di esorcizzare i tormenti
interiori oltre che con l’arte visiva anche scrivendo storie brevi e
poemi di tono surrealista. Alla fine decide però di entrare in un
ospedale psichiatrico, luogo che le permette, come una novella Robert
Walser femminile, di trovare una certa stabilità, luogo che continua
ancora oggi ad essere la sua seconda casa.
Una traccia di questo straordinario e doloroso percorso artistico e
di vita si trova nel bel museo municipale di Matsumoto che ha una
collezione permanente dedicata all’artista, fin dall’esterno dove ad
accogliere il visitatore ci sono dei giganteschi fiori fluttuanti. La
parte più interessante però è all’interno dove è possibile esperire le
opere di Kusama dal periodo giovanile fino a quelle più recenti ed
alcune sono davvero notevoli perché si tratta di vere e proprie stanze
che accolgono e abbracciano il visitatore. Stanze piene di specchi e
pois naturalmente, installazioni con cui si entra quasi fisicamente nel
mondo allucinatorio e destabilizzante dell’artista giapponese. Certo
questi cerchi colorati sono diventati ora più che mai una sorta di
merchandise da vendere e brandire come marchio, nel negozio del museo si
vendono portachiavi, tazze e quant’altro e un paio di anni or sono la
stessa
Kusama collaborò con Luis Vitton per una linea di prodotti della marca francese.
Ma qui sta il doppio significato della pop art e del mercato dell’arte
moderna in generale, una contraddizione che la stessa artista portava
alle sue estreme conseguenze già nel 1966 alla Biennale di Venezia
quando durante l’esposizione del suo lavoro Narcissus Garden, cominciò a
vendere le sfere che componevano l’opera stessa ai visitatori mettendo
così in luce l’ambiguità dell’arte contemporanea e della sua necessaria
ed inevitabile mercificazione.
[Matteo Boscarol da Il Manifesto del 15/04/2016]