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martedì 28 giugno 2016

Cameron, un capitano sul Titanic


A tre giorni dal più grande evento storico ed istituzionale europeo dal Secondo dopoguerra, al pari della caduta del muro di Berlino, il paese si confronta con le conseguenze della decisione presa dai 17 milioni di elettori che hanno votato per l’uscita dalla Ue. Il clima è chiaramente ancora di sgomento, come evidenziano le prime pagine di lunedì di due quotidiani agli antipodi: al posto delle consuete soubrette e calciatori, Metro mostrava una foto notturna di Westminster col titolo “Le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno”, mentre sulla prima del Financial Times campeggiava un lugubre sfondo nero. «Almeno il titanic aveva un capitano», scriveva il Guardian in un editoriale.
Pur essendo ridotto politicamente a un ologramma, è ancora David Cameron quel capitano, e in quella veste ha presieduto la prima riunione di gabinetto dopo il quasi singhiozzante annuncio di dimissioni venerdì scorso. Il suo portavoce ha subito escluso che la strampalata iniziativa di indire un secondo referendum a rettifica di quello che ha appena sancito l’ineluttabile Brexit si possa praticare, con buona pace dei tre milioni – parte di cui era gonfiata dall’intervento di alcuni hacker – di firme che hanno intasato in poche ore il sito delle petizioni online del governo. Ciononostante, la questione rimane in piedi: a parte l’avvocato Geoffrey Robertson, che, facendo leva sull’oralità della costituzione, sempre dalle pagine del Guardian avverte che è comunque il parlamento britannico a dover approvare l’avvio del ritiro dall’Europa, c’è la netta opposizione di Nicola Sturgeon, che non ci sta a vedere la devoluta Scozia, in maggioranza per il remain, trascinata fuori contro voglia dall’Europa. Già venerdì scorso, Sturgeon aveva detto chiaramente che un nuovo referendum scozzese è probabile.
Cameron ha poi parlato ai Comuni nel primo pomeriggio, delineando i futuri passaggi della negoziazione per l’uscita a fronte di quella che sarà la sua imbarazzante comparsa davanti ai colleghi europei a Bruxelles martedì. Ha annunciato la costituzione di una task force amministrativa che se ne occuperà, con l’apporto di figure tra le «migliori e più intelligenti» di Westminster sotto la guida di Oliver Letwin e cui parteciperanno i parlamenti devoluti di Scozia e Galles, oltre che l’amministrazione della capitale. Ha condannato gli episodi di razzismo e intolleranza che hanno preso di mira membri della comunità polacca e cittadini perfettamente britannici di origine asiatica e assicurato che non vi sarà alcun mutamento nello status dei cittadini comunitari che vivono in Gran Bretagna. Ha poi ribadito le assicurazioni che il cancelliere George Osborne aveva fatto qualche ora prima allo scopo di rassicurare sulla tenuta dell’economia.
L’ologramma sarà poi sostituito con una persona politicamente in carne ossa subito dopo l’estate, almeno stando al 1922 Committee, un comitato di backbenchers conservatori che ha stabilito una tabella di marcia: le nomination dovranno essere rese note entro questo mercoledì, e il risultato raggiunto entro il prossimo 2 settembre. Ha anche ribadito che la clausola 50 che dovrebbe mettere in moto la negoziazione del distacco non sarà posta in opera prima di ottobre, ignorando le ripetute pressioni dei ministri degli esteri Europei per una maggiore celerità.
Quanto alla rassicurazione di Osborne, non ha rassicurato un granché. La volatilità in borsa è ripresa poche ore dopo ieri il ministro dell’economia faceva il suo discorso. Le banche britanniche sono crollate per via della loro cospicua esposizione. La vendita delle parzialmente nazionalizzate Royal Bank of Scotland e Lloyds, che Osborne voleva vendere per abbassare il debito non saranno affatto vendute. Sia Barclays che Lloyds hanno perso il 30% del valore, la sterlina è scesa contro il dollaro a livelli del 1985 dopo che i mercati asiatici se ne erano liberati a favore dello Yen. Il budget di emergenza che aveva minacciato in campagna referendaria, attirandosi accuse terroristiche, non si è materializzato.
Quanto al nome del futuro leader, la scelta è abbastanza ristretta, e i nomi più papabili sono quelli di Johnson e Theresa May. Nella loro prima conferenza stampa all’interno del cabinato che fungeva da loro quartier generale, Gove e Johnson sembravano due senili fanciulli scappati di casa e ritrovati dalla polizia sani e salvi dopo febbrili ricerche. La loro vittoria, ottenuta grazie – e soprattutto – alla trucida retorica razzistoide dei creativi di casa Farage, li mette ora di fronte a una serie di test per cui non li si sospetta granché preparati. Dovranno fare una serie di marce indietro soprattutto con quelli che hanno votato leave dopo aver visto il gaglioffo poster di Farage (quello con la scritta “punto di rottura” davanti a una fila di profughi siriani) e che ora si aspettano l’impossibile chiusura delle frontiere. Il loro dilemma principale? Stare nel mercato unico e non poter fare nulla sull’immigrazione, o uscirne innescando una quasi certa contrazione dell’economia.
[Leonardo Clausi  28/06/2016]

giovedì 9 giugno 2016

Una vita in lotta contro la mafia

Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide. Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un «cittadino onesto» e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia, quella vera, silenziosa e normale.
Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E tanti “nipoti”. Non c’è mai stato il mondo delle associazioni imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al «caro estortore».
Ucciso d’estate, Libero. Era il ’91, a Palermo quasi ogni giorno un morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome, nessun logo: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Era il 29 giugno del 2004.
Tredici anni senza Libero. «Mi chiama una giornalista e mi chiede cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori. Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li avrei adottati come nipoti miei e di Libero», racconterà Pina Maisano. E il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: «Siamo i tuoi nipoti». Con quell'”adozione” particolare nasceva Addiopizzo, l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà l’iniziativa del consumo critico antimafioso: un bollino per ogni negozio antiracket “certificato”. E “rinasceva” anche Pina Maisano, non più la vedova di Libero Grassi, ma la “nonna” dei ragazzi che sfidano il racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano.

La diffidenza che si portava dentro

Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella diffidenza che si portava dentro.
Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma. Un anno dopo, era il ’92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai “nipoti” di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie di legalità erano iniziate molto prima del ’91. A capo della Sigma, terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli anni Sessanta s’era battuto perché il «sacco di Palermo» di Vito Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi contro la lobby dei “bombolari”. Aveva poi creato la Solange impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per l’energia solare.
E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e chiedeva aiuto. «Era Marco Pannella – ricorderà Pina Maisano – tra lui e Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto: i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà di tutti i giorni». È così che Grassi si iscrive al Partito radicale, dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione Palermo, votato all’antimafia per denunciare «il sistema di potere Dc» come «espressione della “borghesia mafiosa”».
Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano chiederà conto a Giulio Andreotti. «Era il giorno in cui la giunta per le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale contro di lui – racconterà Pina – Il primo documento a disposizione, 250 pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo, Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana, erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione, non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino, quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?». Il «divo Giulio» promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la memoria: «Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti». Due mondi diversi. Due mondi lontani.

Senza guardarlo negli occhi

Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima scrisse al «Caro estortore…», pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive: «Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato». Parole dure, parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice, Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato acquistare la “protezione” dei boss, quando il presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in risposta a Grassi, che «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Adesso che Pina non c’è più, tocca ai “nipoti” di Addiopizzo. «Hai segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo cresciuti. Grazie, nonna».
[Alfredo Marsala 9/06/2016]

mercoledì 8 giugno 2016

La radicalizzazione lenta del mondo parallelo degli «hui»

In qualunque città cinese ci si trovi, si può star certi di imbattersi in ristoranti con la vetrina abbellita da uno striscione verde e parole scritte in arabo. In caratteri cinesi, questi ristoranti annunciano lamian (un tipo di spaghetti freschi, tirati a mano), e manzo e agnello spolverati di cumino. Ristoranti piccoli e a buon mercato, decorati all’interno da grandi poster di panorami montani e minareti.
I proprietari e gestori di questi locali halal appartengono al gruppo etnico-culturale cinese hui. È la seconda «etnia» cinese musulmana più importante del paese, subito dopo gli uiguri. Si tratta di più di dieci milioni di persone, concentrate nelle regioni del nord-ovest ma sparse anche in tutta la Cina, ma che, contrariamente agli uiguri del Xinjiang, parlano mandarino, e i vari dialetti locali dei posti in cui vivono. Gli hui sono particolarmente numerosi nel Gansu, tanto a Lanzhou (capitale provinciale e patria dei lamian), che a Linxia, una cittadina detta «piccola Mecca cinese»; così come nel Ningxia – la «regione autonoma» a maggioranza hui, dove è appena stato costruito un parco a tema «islamico» per turisti – e nello Shanxi, dove la presenza di questi musulmani assimilati è maggiormente vistosa.
Ma nell’intera Cina i cittadini hui occupano le strade e i quartieri intorno ai loro luoghi di culto, e sono facilmente identificabili: le donne portano l’hijab, lasciando dunque il volto scoperto, e gli uomini, con appena degli accenni di barba, indossano calotte ricamate. Presenti in Cina da secoli, sono separati dal resto della popolazione in particolare dai tabù alimentari.
E se per la maggior parte dei cinesi l’idea di non mangiare carne di maiale è poco appetibile, nessun ristoratore in Cina si stupisce alla richiesta di piatti senza lardo o darou, la «carne grossa»: l’islam degli hui è profondamente parte della Cina. Gli hui sono infatti figli di un meticciato di origine mercantile: i commercianti arabi e persiani arrivarono in Cina fin dal VII secolo, sia lungo la Via della Seta che attraversava l’Asia Centrale che soprattutto lungo quella marittima, che arrivava a Guangzhou (Canton). Erano i secoli della dinastia Tang (618-907), la più cosmopolita della storia cinese, e gli hui ottennero un raro favore imperiale: l’autorizzazione a sposare donne cinesi, dopo che, vuole la leggenda, l’imperatore Taizong (626-649) sognò che dei saggi uomini dall’Occidente in turbante verde l’avrebbero aiutato a risolvere svariate difficoltà di governo.
Da allora, gli hui esistono in Cina in modo parallelo, assimilati al resto della popolazione per lingua ed aspetto, presenti in ogni mercato, in ogni porto, in ogni città di transito. Sono i musulmani grazie a cui la Cina può mostrare di non avere un problema con l’Islam per se, ma solo con il «separatismo uiguro». Anzi: percorrendo le aride strade del Ningxia e del Gansu le moschee nuove, appena costruite sono onnipresenti, ed il richiamo alla preghiera del muezzin risuona forte, diffuso da altoparlanti elettrici proibiti nel vicino Xinjiang.
La loro presenza centenaria in Cina fa sì che non solo l’Islam sia visto come una religione in un certo senso di casa, malgrado le sanguinose rivolte musulmane che ebbero luogo nel 19esimo secolo, quando la dinastia Qing (1636-1911) mostrava le sue debolezze, ma anche che la loro esistenza possa essere utilizzata come ponte privilegiato fra la Cina e i Paesi a maggioranza musulmana. È anche un elemento importante con cui Pechino promuove la sua spinta verso Occidente del progetto «One Belt One Road», serie di iniziative diplomatiche e di infrastrutture con cui la Cina vuole consolidare la sua presenza nel mondo.
Contrariamente agli uiguri conquistati e colonizzati in epoche più recenti, gli hui non hanno rivendicazioni territoriali, e non subiscono la convivenza con gli altri cinesi come l’invasione della loro terra ancestrale. La moschea di Huisheng, a Guangzhou, con accanto il più antico cimitero musulmano cinese, fu eretta più di 1.300 anni fa (e ricostruita a varie riprese), quando Taizong approvò che i mercanti arabi risiedessero in Cina. Dagli anni Ottanta ad oggi, è stata meta di pellegrinaggi religiosi, e di visite di potenziali investitori dal Sud-Est Asiatico musulmano e dai Paesi del Golfo.
Scambi grazie a cui Pechino vorrebbe proporre la vicina Hong Kong come piattaforma finanziaria musulmana, e affermarsi come primo esportatore al mondo di cibo halal e altri prodotti «islamici» (in particolare di abbigliamento ed elettronica) con parchi industriali appositi.
Ma negli ultimi anni nemmeno la comunità hui è stata immune dalle tensioni politiche, e dalle seduzioni del salafismo. Musulmani sinizzati, certo, ma non per questo indifferenti a quanto avviene nel resto del mondo e della Cina: man mano che la repressione in Xinjiang ha portato all’arresto degli imam considerati troppo poco patriottici, ecco che gli imam hui hanno dapprima sostituito i loro confratelli uiguri, scontrandosi però con la stessa interferenza religiosa. Ed anche fra gli hui – che non hanno le stesse difficoltà ad ottenere un passaporto riscontrate invece dagli uiguri – si trovano giovani studenti islamici rientrati dall’Arabia Saudita determinati a rendere l’islamismo della loro comunità più «puro» e vicino al wahabismo saudita. Diverse scuole coraniche, del resto, sono state recentemente chiuse, e non è più permesso accettare finanziamenti esteri per la costruzione delle moschee.
Una radicalizzazione lenta e fin’ora poco visibile, saltata maggiormente alla ribalta lo scorso dicembre, quando Daesh per la prima volta ha diffuso via internet una canzone in mandarino, in cui incita i veri musulmani a «svegliarsi» e «impugnare le armi per combattere». La voce registrata ha un accento del nord-ovest, forse proprio del Gansu, e l’episodio, che ha ricevuto scarsa pubblicità in Cina, sembra essere stato però preso seriamente dalle autorità. Gli sviluppi di questa relazione poco nota sono dunque tutti da osservare.
[Ilaria Maria Sala 8/06/2016]