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giovedì 14 settembre 2017

Un Uomo, Oriana Fallaci

Succedeva molto raramente che tu sognassi di possedere una donna, dopo la notte di Egina ti era capitato si e no quattro volte e ogni volta era durato pochisimo perchè il timore di non fare in tempo, d'essere condotto dinanzi al plotone prima dell'orgasmo finale, era rimasto in te come un complesso. Stavolta invece fu un sogno assai lungo. Ti sembrava d'avere dinanzi l'eternità e penetravi la donna con calma, coi movimentoi quieti e soavi di un mare tranquillo che lambisce la spiaggia in carezza di spuma, poi si ritira piano, indugia paziente prima di tornare, lambire di nuovo con nuova lentezza, ed era dolce rinviare lo scoppio, l'attimo in cui il mare si sarebbe ingrossato per schiantarsi in una scarica d'acqua ruggente, era squisito gonfiuare l'attesa di una conclusione che non poteva negarsi, che ora si approssimava, di più sempre di più, ancora un poco e l'ultima ondata si sarebbe infranta schizzando i suoi spruzzi gloriosi: Ecco che saliva, veniva, stava per travolgerti, e....."Sveglia, Alekos, sveglia!

sabato 2 luglio 2016

Il presente stantio

L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, esplosione di un bubbone che ha lungamente covato il suo potenziale infettivo, è un fatto estremamente grave a prescindere dalle sue ricadute economiche. Ha un carattere razzista innegabile e non è un fatto isolato, ma espressione di una tendenza generale, diffusa e contagiante, tra i popoli d’Europa. Segnala che il rigetto dell’alterità stia facendo un temibile salto di qualità: l’avversione nei confronti dello straniero risucchia anche il vicino di casa, lo rende irriconoscibile, un estraneo.
Tra i tutti i narcisismi identitari, il più insidioso è quello delle piccole differenze, quando le dispute tra contrade diventano un muro invalicabile. Sostituire la prossimità con l’indifferenza, colpisce l’apertura alla vita nelle sue radici, cancella l’altro come parte di sé. La convinzione di poter fare da soli è il primo passo verso il più catastrofico dei conflitti, quello che si dissocia dal desiderio.
L’analisi del voto rende questa prospettiva, ormai a portata di mano, raccapricciante. Genitori/nonni hanno votato contro il figli/nipoti, in grande maggioranza favorevoli alla permanenza. Non è stato un conflitto generazionale, ma un figlicidio: la rottura della catena di trasmissione tra le generazioni, il rifiuto di passare il testimone, la pretesa di istituire il passato come futuro. Non è una bizzarria inglese: è la mentalità anonima che governa i nostri destini. In definitiva, cos’è il razzismo se non la più radicale chiusura alle trasformazioni, l’impossibilità di riconoscersi nel cambiamento che imprime la presenza di un figlio, del creato comune partorito dall’incontro e dallo scambio?
Sarebbe bello riporre nelle nuove generazioni le speranze di un riscatto, tifare per la loro voglia di ribellarsi. Non è così semplice. Il vecchio governa il mondo impadronendosi del nuovo, corrompendolo. I giovani inglesi saranno favorevoli all’Europa, ma è stata la loro massiccia astensione dal voto, pari al fervore per un mondo aperto, a favorire il campo avversario. Pare che le pessime condizioni meteorologiche non li abbiano invogliati. L’appuntamento con l’avvenire può attendere.
Il principio che sottende la nostra esistenza è il vecchio che non passa: lo stantio. Il cattivo odore lo si percepisce, ma ognuno lo attribuisce a ciò che preferisce (le scelte abbondano). Si ritiene che la saggezza della vecchiaia stia nell’esperienza che consente di calcolare, con uno spirito di prudenza, possibilità e pericoli.
In realtà il vecchio saggio è guidato dalla passione e, memore dei suoi errori, misura la vita con un’inedita apertura del pensiero e degli affetti, che lo riporta a sentirsi giovane. I tempi sono ingenerosi con lui, l’hanno privato del suo specchiarsi nello sguardo ardito dei giovani. Siamo fermi tra la gioventù appassionata che non addiviene e la vecchiaia saggia in pensione, in mezzo ai contabili di tutte le età: l’aritmetica è la loro arte del vivere.
Il legame tra uno sviluppo tecnologico impressionante e la produzione crescente di malessere, mostra che non è la crisi economica a determinare la crisi etica (il disagio della civiltà in cui siamo immersi): è vero l’opposto. La fredda gestione numerica del lavoro e delle risorse, la dittatura impersonale che ci domina, è espressione di una ripetizione del medesimo. Al raggrinzamento della vitalità di un corpo sociale raffermo, corrisponde una concentrazione immensa dei beni materiali.
Non sono beni finalizzati a un piacere reale, ma a riprodurre gli ingranaggi che li producono. Il trionfo annunciato dello scheletro sulla carne viva.
[Sarantis Thanopulos 2/07/2016]

venerdì 1 luglio 2016

La Brexit apre una falla nel Ttip


Poco più di un mese fa è stata istituita la «sala di lettura» presso il Ministero dello Sviluppo Economico del Ttip, il trattato euro-americano sul libero commercio. Una «sala lettura» per permettere ai parlamentari di leggere la bozza dei negoziati in corso. 800 pagine (in nove plichi) da leggere in un’ora (questo il tempo concesso), lasciando fuori della sala di lettura telefonino e computer, senza la possibilità di fare le fotocopie e sotto il controllo vigile di un funzionario del ministero: infatti si possono prendere solo appunti ed è vietato ricopiare le frasi del trattato.
Infatti la bozza del trattato è «segreta»: gli si può dare un’occhiata, ma non troppo. Il Ministro Calenda ha detto che i negoziatori non possono farsi “imbrigliare” dal parlamento e si oppone al diritto dei parlamenti nazionali di ratificare l’altro trattato gemello (tra Unione Europea e Canada): il Ceta. In realtà è il parlamento ad essere imbrigliato (e tenuto all’oscuro) dai negoziatori europei e dal business delle multinazionali (americane ed europee), le vere beneficiarie di questo trattato.
Un trattato che costringerà gli europei (in cambio dell’abbassamento dei dazi americani) ad allentare gli standard ambientali e sanitari su una miriade di prodotti, beni e servizi: dal settore agroalimentare (il cibo che ci mangiamo) a quello tessile, dai servizi pubblici al welfare. Dalle etichettature dei prodotti (avremo meno informazioni su cosmetici e prodotti alimentari) alla sicurezza delle automobili (i test per la sicurezza degli abitacoli saranno ridotti al minimo), dalle denominazione di origine (che fine faranno i nostri Dop e Docg?) agli Ogm (cui si danno nuove chances) fino al mancato rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: il Ttip è una sorta di Waterloo europea per i diritti sociali e dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la coesione sociale del nostro continente, per la democrazia. Ci rimetteranno anche i piccoli produttori, che saranno spazzati via dalle nuove regole.
Il tutto sacrificato sull’altare degli interessi delle multinazionali, di una visione ideologica del libero commercio, della supremazia di un mercato senza limiti. Anche a costo di dar vita ad una sorta di arbitrato privato cui gli Stati saranno chiamati a rispondere, nel caso approvino leggi a tutela dei consumatori e dei cittadini (ma che danneggino le multinazionali).
La potestà legislativa degli Stati sarà messa sotto tutela dalle imprese e il principio di precauzione (cioè la cautela su aspetti controversi riguardo alla salubrità di prodotti e merci) andrà alle ortiche: l’onore della prova (se un prodotto fa male) graverà sulle spalle di cittadini e consumatori.
Il prossimo 11 luglio inizierà un altro round di negoziati a Bruxelles tra europei ed americani. Non è detto che si concluda positivamente. I britannici erano tra più strenui sostenitori del trattato e con la Brexit i neoliberisti della Commissione perdono un importante alleato. La Francia si oppone a tante parti del trattato (che danneggerebbe numerosi suoi beni e servizi: prodotti alimentari, settore audiovisivo,), mentre l’Italia, con il ministro Calenda, continua ad essere allineata nelle schiere degli ortodossi del Ttip.
La campagna Stop Ttip (che organizza il prossimo 5 luglio alla Camera dei deputati un importante confronto con il Ministro dello Sviluppo Economico) invita il nostro governo alla trasparenza, al coinvolgimento del parlamento e dice una cosa che va sostenuta: bisogna togliere il mandato di negoziare ai funzionari di Bruxelles. Bisogna ricondurre il potere di decidere su materie così importanti al parlamento europeo e alle assemblee elettive nazionali.
Magari qualcuno, su a Bruxelles, può pensare che dopo la Brexit, si tratta ora di dare un forte segnale di decisionismo europeo, accelerando e concludendo la trattativa sul Ttip. Sarebbe una sciagura che pagheremmo cara: un ulteriore regalo al neoliberismo, alle multinazionali e alle lobby. Così si costruisce l’Europa dei mercanti, non dei cittadini. E non si va lontano.
[Giulio Marcon 1/07/2016]

martedì 28 giugno 2016

Cameron, un capitano sul Titanic


A tre giorni dal più grande evento storico ed istituzionale europeo dal Secondo dopoguerra, al pari della caduta del muro di Berlino, il paese si confronta con le conseguenze della decisione presa dai 17 milioni di elettori che hanno votato per l’uscita dalla Ue. Il clima è chiaramente ancora di sgomento, come evidenziano le prime pagine di lunedì di due quotidiani agli antipodi: al posto delle consuete soubrette e calciatori, Metro mostrava una foto notturna di Westminster col titolo “Le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno”, mentre sulla prima del Financial Times campeggiava un lugubre sfondo nero. «Almeno il titanic aveva un capitano», scriveva il Guardian in un editoriale.
Pur essendo ridotto politicamente a un ologramma, è ancora David Cameron quel capitano, e in quella veste ha presieduto la prima riunione di gabinetto dopo il quasi singhiozzante annuncio di dimissioni venerdì scorso. Il suo portavoce ha subito escluso che la strampalata iniziativa di indire un secondo referendum a rettifica di quello che ha appena sancito l’ineluttabile Brexit si possa praticare, con buona pace dei tre milioni – parte di cui era gonfiata dall’intervento di alcuni hacker – di firme che hanno intasato in poche ore il sito delle petizioni online del governo. Ciononostante, la questione rimane in piedi: a parte l’avvocato Geoffrey Robertson, che, facendo leva sull’oralità della costituzione, sempre dalle pagine del Guardian avverte che è comunque il parlamento britannico a dover approvare l’avvio del ritiro dall’Europa, c’è la netta opposizione di Nicola Sturgeon, che non ci sta a vedere la devoluta Scozia, in maggioranza per il remain, trascinata fuori contro voglia dall’Europa. Già venerdì scorso, Sturgeon aveva detto chiaramente che un nuovo referendum scozzese è probabile.
Cameron ha poi parlato ai Comuni nel primo pomeriggio, delineando i futuri passaggi della negoziazione per l’uscita a fronte di quella che sarà la sua imbarazzante comparsa davanti ai colleghi europei a Bruxelles martedì. Ha annunciato la costituzione di una task force amministrativa che se ne occuperà, con l’apporto di figure tra le «migliori e più intelligenti» di Westminster sotto la guida di Oliver Letwin e cui parteciperanno i parlamenti devoluti di Scozia e Galles, oltre che l’amministrazione della capitale. Ha condannato gli episodi di razzismo e intolleranza che hanno preso di mira membri della comunità polacca e cittadini perfettamente britannici di origine asiatica e assicurato che non vi sarà alcun mutamento nello status dei cittadini comunitari che vivono in Gran Bretagna. Ha poi ribadito le assicurazioni che il cancelliere George Osborne aveva fatto qualche ora prima allo scopo di rassicurare sulla tenuta dell’economia.
L’ologramma sarà poi sostituito con una persona politicamente in carne ossa subito dopo l’estate, almeno stando al 1922 Committee, un comitato di backbenchers conservatori che ha stabilito una tabella di marcia: le nomination dovranno essere rese note entro questo mercoledì, e il risultato raggiunto entro il prossimo 2 settembre. Ha anche ribadito che la clausola 50 che dovrebbe mettere in moto la negoziazione del distacco non sarà posta in opera prima di ottobre, ignorando le ripetute pressioni dei ministri degli esteri Europei per una maggiore celerità.
Quanto alla rassicurazione di Osborne, non ha rassicurato un granché. La volatilità in borsa è ripresa poche ore dopo ieri il ministro dell’economia faceva il suo discorso. Le banche britanniche sono crollate per via della loro cospicua esposizione. La vendita delle parzialmente nazionalizzate Royal Bank of Scotland e Lloyds, che Osborne voleva vendere per abbassare il debito non saranno affatto vendute. Sia Barclays che Lloyds hanno perso il 30% del valore, la sterlina è scesa contro il dollaro a livelli del 1985 dopo che i mercati asiatici se ne erano liberati a favore dello Yen. Il budget di emergenza che aveva minacciato in campagna referendaria, attirandosi accuse terroristiche, non si è materializzato.
Quanto al nome del futuro leader, la scelta è abbastanza ristretta, e i nomi più papabili sono quelli di Johnson e Theresa May. Nella loro prima conferenza stampa all’interno del cabinato che fungeva da loro quartier generale, Gove e Johnson sembravano due senili fanciulli scappati di casa e ritrovati dalla polizia sani e salvi dopo febbrili ricerche. La loro vittoria, ottenuta grazie – e soprattutto – alla trucida retorica razzistoide dei creativi di casa Farage, li mette ora di fronte a una serie di test per cui non li si sospetta granché preparati. Dovranno fare una serie di marce indietro soprattutto con quelli che hanno votato leave dopo aver visto il gaglioffo poster di Farage (quello con la scritta “punto di rottura” davanti a una fila di profughi siriani) e che ora si aspettano l’impossibile chiusura delle frontiere. Il loro dilemma principale? Stare nel mercato unico e non poter fare nulla sull’immigrazione, o uscirne innescando una quasi certa contrazione dell’economia.
[Leonardo Clausi  28/06/2016]

giovedì 9 giugno 2016

Una vita in lotta contro la mafia

Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide. Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un «cittadino onesto» e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia, quella vera, silenziosa e normale.
Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E tanti “nipoti”. Non c’è mai stato il mondo delle associazioni imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al «caro estortore».
Ucciso d’estate, Libero. Era il ’91, a Palermo quasi ogni giorno un morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome, nessun logo: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Era il 29 giugno del 2004.
Tredici anni senza Libero. «Mi chiama una giornalista e mi chiede cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori. Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li avrei adottati come nipoti miei e di Libero», racconterà Pina Maisano. E il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: «Siamo i tuoi nipoti». Con quell'”adozione” particolare nasceva Addiopizzo, l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà l’iniziativa del consumo critico antimafioso: un bollino per ogni negozio antiracket “certificato”. E “rinasceva” anche Pina Maisano, non più la vedova di Libero Grassi, ma la “nonna” dei ragazzi che sfidano il racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano.

La diffidenza che si portava dentro

Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella diffidenza che si portava dentro.
Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma. Un anno dopo, era il ’92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai “nipoti” di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie di legalità erano iniziate molto prima del ’91. A capo della Sigma, terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli anni Sessanta s’era battuto perché il «sacco di Palermo» di Vito Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi contro la lobby dei “bombolari”. Aveva poi creato la Solange impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per l’energia solare.
E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e chiedeva aiuto. «Era Marco Pannella – ricorderà Pina Maisano – tra lui e Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto: i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà di tutti i giorni». È così che Grassi si iscrive al Partito radicale, dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione Palermo, votato all’antimafia per denunciare «il sistema di potere Dc» come «espressione della “borghesia mafiosa”».
Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano chiederà conto a Giulio Andreotti. «Era il giorno in cui la giunta per le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale contro di lui – racconterà Pina – Il primo documento a disposizione, 250 pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo, Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana, erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione, non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino, quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?». Il «divo Giulio» promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la memoria: «Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti». Due mondi diversi. Due mondi lontani.

Senza guardarlo negli occhi

Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima scrisse al «Caro estortore…», pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive: «Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato». Parole dure, parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice, Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato acquistare la “protezione” dei boss, quando il presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in risposta a Grassi, che «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Adesso che Pina non c’è più, tocca ai “nipoti” di Addiopizzo. «Hai segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo cresciuti. Grazie, nonna».
[Alfredo Marsala 9/06/2016]

mercoledì 8 giugno 2016

La radicalizzazione lenta del mondo parallelo degli «hui»

In qualunque città cinese ci si trovi, si può star certi di imbattersi in ristoranti con la vetrina abbellita da uno striscione verde e parole scritte in arabo. In caratteri cinesi, questi ristoranti annunciano lamian (un tipo di spaghetti freschi, tirati a mano), e manzo e agnello spolverati di cumino. Ristoranti piccoli e a buon mercato, decorati all’interno da grandi poster di panorami montani e minareti.
I proprietari e gestori di questi locali halal appartengono al gruppo etnico-culturale cinese hui. È la seconda «etnia» cinese musulmana più importante del paese, subito dopo gli uiguri. Si tratta di più di dieci milioni di persone, concentrate nelle regioni del nord-ovest ma sparse anche in tutta la Cina, ma che, contrariamente agli uiguri del Xinjiang, parlano mandarino, e i vari dialetti locali dei posti in cui vivono. Gli hui sono particolarmente numerosi nel Gansu, tanto a Lanzhou (capitale provinciale e patria dei lamian), che a Linxia, una cittadina detta «piccola Mecca cinese»; così come nel Ningxia – la «regione autonoma» a maggioranza hui, dove è appena stato costruito un parco a tema «islamico» per turisti – e nello Shanxi, dove la presenza di questi musulmani assimilati è maggiormente vistosa.
Ma nell’intera Cina i cittadini hui occupano le strade e i quartieri intorno ai loro luoghi di culto, e sono facilmente identificabili: le donne portano l’hijab, lasciando dunque il volto scoperto, e gli uomini, con appena degli accenni di barba, indossano calotte ricamate. Presenti in Cina da secoli, sono separati dal resto della popolazione in particolare dai tabù alimentari.
E se per la maggior parte dei cinesi l’idea di non mangiare carne di maiale è poco appetibile, nessun ristoratore in Cina si stupisce alla richiesta di piatti senza lardo o darou, la «carne grossa»: l’islam degli hui è profondamente parte della Cina. Gli hui sono infatti figli di un meticciato di origine mercantile: i commercianti arabi e persiani arrivarono in Cina fin dal VII secolo, sia lungo la Via della Seta che attraversava l’Asia Centrale che soprattutto lungo quella marittima, che arrivava a Guangzhou (Canton). Erano i secoli della dinastia Tang (618-907), la più cosmopolita della storia cinese, e gli hui ottennero un raro favore imperiale: l’autorizzazione a sposare donne cinesi, dopo che, vuole la leggenda, l’imperatore Taizong (626-649) sognò che dei saggi uomini dall’Occidente in turbante verde l’avrebbero aiutato a risolvere svariate difficoltà di governo.
Da allora, gli hui esistono in Cina in modo parallelo, assimilati al resto della popolazione per lingua ed aspetto, presenti in ogni mercato, in ogni porto, in ogni città di transito. Sono i musulmani grazie a cui la Cina può mostrare di non avere un problema con l’Islam per se, ma solo con il «separatismo uiguro». Anzi: percorrendo le aride strade del Ningxia e del Gansu le moschee nuove, appena costruite sono onnipresenti, ed il richiamo alla preghiera del muezzin risuona forte, diffuso da altoparlanti elettrici proibiti nel vicino Xinjiang.
La loro presenza centenaria in Cina fa sì che non solo l’Islam sia visto come una religione in un certo senso di casa, malgrado le sanguinose rivolte musulmane che ebbero luogo nel 19esimo secolo, quando la dinastia Qing (1636-1911) mostrava le sue debolezze, ma anche che la loro esistenza possa essere utilizzata come ponte privilegiato fra la Cina e i Paesi a maggioranza musulmana. È anche un elemento importante con cui Pechino promuove la sua spinta verso Occidente del progetto «One Belt One Road», serie di iniziative diplomatiche e di infrastrutture con cui la Cina vuole consolidare la sua presenza nel mondo.
Contrariamente agli uiguri conquistati e colonizzati in epoche più recenti, gli hui non hanno rivendicazioni territoriali, e non subiscono la convivenza con gli altri cinesi come l’invasione della loro terra ancestrale. La moschea di Huisheng, a Guangzhou, con accanto il più antico cimitero musulmano cinese, fu eretta più di 1.300 anni fa (e ricostruita a varie riprese), quando Taizong approvò che i mercanti arabi risiedessero in Cina. Dagli anni Ottanta ad oggi, è stata meta di pellegrinaggi religiosi, e di visite di potenziali investitori dal Sud-Est Asiatico musulmano e dai Paesi del Golfo.
Scambi grazie a cui Pechino vorrebbe proporre la vicina Hong Kong come piattaforma finanziaria musulmana, e affermarsi come primo esportatore al mondo di cibo halal e altri prodotti «islamici» (in particolare di abbigliamento ed elettronica) con parchi industriali appositi.
Ma negli ultimi anni nemmeno la comunità hui è stata immune dalle tensioni politiche, e dalle seduzioni del salafismo. Musulmani sinizzati, certo, ma non per questo indifferenti a quanto avviene nel resto del mondo e della Cina: man mano che la repressione in Xinjiang ha portato all’arresto degli imam considerati troppo poco patriottici, ecco che gli imam hui hanno dapprima sostituito i loro confratelli uiguri, scontrandosi però con la stessa interferenza religiosa. Ed anche fra gli hui – che non hanno le stesse difficoltà ad ottenere un passaporto riscontrate invece dagli uiguri – si trovano giovani studenti islamici rientrati dall’Arabia Saudita determinati a rendere l’islamismo della loro comunità più «puro» e vicino al wahabismo saudita. Diverse scuole coraniche, del resto, sono state recentemente chiuse, e non è più permesso accettare finanziamenti esteri per la costruzione delle moschee.
Una radicalizzazione lenta e fin’ora poco visibile, saltata maggiormente alla ribalta lo scorso dicembre, quando Daesh per la prima volta ha diffuso via internet una canzone in mandarino, in cui incita i veri musulmani a «svegliarsi» e «impugnare le armi per combattere». La voce registrata ha un accento del nord-ovest, forse proprio del Gansu, e l’episodio, che ha ricevuto scarsa pubblicità in Cina, sembra essere stato però preso seriamente dalle autorità. Gli sviluppi di questa relazione poco nota sono dunque tutti da osservare.
[Ilaria Maria Sala 8/06/2016]

giovedì 26 maggio 2016

Il cambiamento ci salverà

Fra i paesi che per la prima volta si affacciano in Laguna, come presenza inedita alla Biennale Architettura, quest’anno ci sarà anche la Nigeria (gli altri sono Filippine, Seychelles e Yemen). A dialogare con il tema scelto dal curatore Alejandro Aravena – Reporting from the front – ci sarà così l’artista e architetto Ola-Dele Kuku con la sua mostra Diminished Capacity allestita allo spazio Punch, da oggi al 27 novembre.
Lo sguardo sui mondi abitabili del futuro comincia dunque da un continente-mosaico come l’Africa in uno spazio espositivo che perde i suoi connotati e in cui vari «oggetti feticcio inviteranno i visitatori a porsi degli interrogativi», come spiega la curatrice Camilla Boemio. E già l’installazione centrale suonerà come un avvertimento: Africa is not a country! è, infatti, la grande scritta al neon che viene associata alle prime parole della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Ola-Dele Kuku, studi a Los Angeles, vive e lavora a Bruxelles, ha una posizione obliqua rispetto all’architettura. Non ama l’idea di «funzionalità» e preferisce introdursi in quel mestiere sfoderando una buona dose di esercizio critico. «L’architettura è una esperienza continua, un’evoluzione – afferma -. È anche un principio di pura identità. Gli egiziani facevano piramidi, i greci erigevano colonne, i romani disegnavano archi. Oggi, l’architettura finisce per essere un mero edificio, occupato da persone che vivono con stili e adattamenti diversi. Io la considero una forma di deterioramento. Manca l’aspetto spirituale, quella forza trainante che conduce a rappresentare l’ignoto, a catturare qualcosa di immateriale. L’economia domina e non c’è respiro per le arti. Forse le nostre società, confrontandosi con la nozione di conflitto, disastro e distruzione, riattiveranno alcune risposte».

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Teatro Dell’archivio, 1996 © Ola-Dele Kuku Projects / courtesy Philippe Laeremans Tribal Art Gallery, Bruxelles
Cosa ha voluto indicare nel titolo, insistendo su quella «capacità ridotta»?
Le aspirazioni degli individui si esprimono in termini di apprensione psicologica o di aspettativa rispetto ai desideri e alla loro realizzazione. Così l’analisi spazio-temporale della interrelazione tra persone e ambiente sociale può fornire una sintesi di geografie comportamentali, culturali, storiche e politiche. I limiti spaziali e temporali sono meccanismi che facilitano e frenano le imprese umane e si riflettono sulla comunità, soprattutto nella disposizione e manipolazione del territorio geografico.
Considera il conflitto un motore creativo, spiazzante?
È parte integrante della formazione ed evoluzione di un sistema sociale. Il conflitto è un dispositivo che istiga al cambiamento, evitando l’omologazione. È un fenomeno che si materializza sotto forma di vari «eventi vitali» – guerre, catastrofi naturali, emigrazioni, nascite e morti. Sono queste le «varianti» che preludono alle trasformazioni della società. Il conflitto è un processo di modificazione che stimola adattamenti e nuove condizioni di sviluppo. In genere, la sua ricomposizione è un obiettivo primario della progettazione sociale. Richiede l’abilità di anticipare gli eventi futuri, valutando le soluzioni e anche la capacità di un pensiero originale, in grado di ottenere soluzioni soddisfacenti.
Guerre, dislocamenti e calamità naturali stanno spostando i confini. Si creano così territori che manifestano uno sviluppo discontinuo e un governo non sostenibile. È un processo di transizione che genera inediti modelli demografici. In più, la concentrazione sproporzionata della popolazione in specifiche aree rende necessari elementi di controllo. Questi territori diventano piattaforme fondamentali per alcuni interventi innovativi, che però richiedono un approccio sistematico e costante nel tempo. I corsi per una ricostruzione post-conflitto dovrebbero entrare nelle istituzioni accademiche dove si studia l’architettura, il design, le arti applicate, la sociologia, la psicologia e la letteratura.
Con il padiglione della Nigeria per la prima volta alla Biennale c’è la possibilità di riscattare l’Africa dagli stereotipi e dalle letture neocoloniali. Concorda?
Parole come Londra, Parigi o Roma non avrebbero senso se non vi fosse alcun riferimento immaginabile, nessuna associazione. Così Parigi potrebbe essere la proiezione mentale della Torre Eiffel, Londra del Big Ben e Roma si può ispirare al Colosseo. Sono immagini che trasmettono una raffigurazione delle realizzazioni e le potenzialità delle persone. A loro volta, illustrano la sintesi di individuo-ambiente, la loro interdipendenza. Cotonou, Ouagadougou, Lome, Freetown, Accra, Yaoundé, Ijebu-Ode e altre grandi città africane devono ancora trovare le loro immagini simboliche, un’identità. Credo che l’ostacolo maggiore sia l’idea sbagliata che scaturisce da un’errata interpretazione della differenza tra cultura e tradizione. La tradizione è un concetto che si riferisce al passaggio di credenze da una generazione all’altra. La credenza dà fiducia a ciò che è sconosciuto e lo rende vero e reale, non ragiona su ciò che è buono o ideale, è opposta al cambiamento. Nelle società in evoluzione, le dinamiche culturali – muovendosi in parallelo alla sensazione ambigua e statica della tradizione – saranno sempre fonte di disorientamento e polemiche. Oggi non ha senso lottare per un’identità tradizionale: le società, attraversate da molteplici tendenze, sono in perenne metamorfosi. I mutamenti sono le uniche certezze. Il Cultural Mapping Project, in corso dal 2002, è stato pensato da me in collaborazione con L-Arn (Laboratorium – Academic Research Network) di Bruxelles e con The Creative Intelligence Association di Lagos, in Nigeria. È il risultato di intensi dibattiti accademici e dello studio di casi concreti, che indagavano la possibilità di rigenerare le città africane contemporanee.
Nella sua installazione, lei ha tenuto a specificare che «Africa is not a country»…
L’errore più comune è l’uso improprio che si fa della parola «Africa». Al momento, ci sono cinquantatré paesi in Africa, ognuno con una distinta identità culturale. Quindi, l’Africa non è un paese, ma un continente. Pertanto, i valori di ogni paese sono le strutture simboliche vitali che servono per costruire l’immagine di quel luogo stesso.
È importante la sua origine yoruba nelle pratiche artistiche?
«Yoruba» non riguarda solo le persone. È una religione, una filosofia e una struttura sociale. Il cosmo yoruba comprende la consapevolezza dei limiti temporali dell’essere, in altre parole invalida ogni valore assoluto. Filosofia e religione yoruba sono sopravvissute a quattrocento anni di schiavitù, sono ancora rilevanti in Brasile, Cuba, Haiti e in altre società che hanno avuto a che fare con la tratta degli schiavi provenienti da «Yorubaland».

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Ola-Dele Kuku
Lei vive a Bruxelles, città con un forte métissage culturale, divenuta adesso il crocevia della paura. Possono l’architettura o l’arte arginare la deriva securitaria e la tentazione dell’Europa di reinnalzare muri e barriere?
Non va dimenticato che il Belgio è stato il campo dove si sono svolte alcune delle più grandi battaglie della storia – da Napoleone a Hitler, da Waterloo a Dunkerque! Ora Bruxelles è la capitale dell’Unione europea. La mia domanda è: «Perché tutti scaricano i loro problemi in Belgio?». L’architettura dei muri e delle barriere ha una lunga storia in Europa – dal Vaticano a Buckingham Palace. Anche il giardino dell’Eden era recintato, Adamo e Eva furono espulsi. Proprio come il cuore è nascosto nel corpo, ciò che è prezioso richiede protezione. Il muro è uno dei mezzi più efficaci di separazione per reagire alla paura collettiva di una intrusione (naturale o antagonista), e sembra rivelarsi fondamentale durante la formazione di una società.