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mercoledì 6 gennaio 2016

La ricca casa di fronte, Joseph Roth

Al tempo in cui ho vissuto quanto sto per raccontare non ero né povero né ricco. Non mi andava così male da essere roso da quell'invidia, alla vista di ricche case e persone, che può essere definita il conforto dei poveri, ma d'altra parte non mi andava così bene da poter  restare indifferente alla vista della ricchezza. Mi trovavo piuttosto in quella situazione in cui si cerca volontariamente la vicinanza della ricchezza, in una sorta di segreta speranza, accuratamente nascosta a se stessi, che un giorno, o magari presto, avrei potuto accedervi io stesso. Mi trovavo in una condizione in cui pensavo di non poter più sopportare un ambiente povero, un quartier miserevole e i vicoli angusti e sporchi. Decisi dunque di trasferirmi in una zona il cui nome già di per sé era pieno di splendore quanto il potere dei suoi abitanti. Ogniqualvolta questo nome veniva pronunciato o letto non sembrava contrassegnare un solo quartiere, bensì un intero regno sconosciuto e lontano in cui era impossibile trovare un povero bisognoso. Ci si dimentica che anche in quel quartiere dovevano viverci impiegati, custodi e tutto un popolo a servizio, piccoli bottegai e artigiani. Il nome del quartiere nascondeva la miseria dei poveri, e se talvolta mi fosse capitato di incontrarne uno, non mi sarebbe mai passato per la testa che potesse abitare lì dove grandi direttori di giornali, banchieri e costruttori avevano le loro magnifiche case.
   Trovai un piccolo hotel che si distingueva da tutti gli altri in cui avevo abitato per il solo fatto che si trovava in un quartiere ricco. I miei vicine erano dei ricchi decaduti che non volevano rinunciare alla vicinanza del denaro, perché credevano evidentemente che per tornarne in possesso servisse loro, al momento opportuno, minor tempo e meno strada. In modo analogo un cane che viene scacciato da una stanza resta comunquw nei pressi della porta dalla quale ha dovuto andarsene.
   Di fronte alla mia piccola ed angusta finestra c'era una casa grande ed imponente.Il portone scuro era chiuso e aveva nel mezzo un pomello dorato che catturava la luce del sole, la potenziava e la rifletteva così che il pomello stesso sembrava non essere affatto lì per sostituire una maniglia, bensì con la funzione di un riflettore la cui luce si gettava direttamente su di me nella mia finestra: in questo modo, attraverso la sua cortese mediazione, facevo per così dire, la conoscenza del sole, che trascurava altrimenti il mio hotel dedicandosi completamente alla ricca casa di fronte.
   Alle finestre della casa pendevano tutto il giorno delle discrete veneziane. Talvolta passavo due ore o anche di più a sorvegliare il grande portone giallo-bruno nella speranza di poter notare qualcuno che entrava o usciva. Mi sembrava di assoluta importanza conoscere i miei ricchi vicini, poiché non potevo per tutto il giorno o giorno dopo giorno contemplare un segreto che avevo davanti agli occhi o che sembrava fatto apposta per mettermi inquietudine. Ma il portone non si apriva.
   Una notte me ne andai a dormire. La mattina dopo mi svegliai a causa di un rumore allegro e operoso: guardai fuori dalla finestra; la casa di fronte aveva aperto tutte le finestre e anche il portone. Uomini in livrea e donne in grembiule bianco pulivano mobili e vetri, sbattevano tappeti, arieggiavano cuscini, strofinavano i bastoni di ottone e lucidavano di cera le assi del pavimento. Guardai le finestre, alte e grandi come portali, immaginavo la silenziosa profondità delle ricche e ampie camere, il tranquillo e raffinato splendore degli oggetti preziosi, credevo persino di avvertire ilo profumo del legno che proveniva dai mobili, e sentivo una cameriera cantare con zelo una vecchia canzonetta che risuonava come un duro oggetto di metallo.

   Un'ora dopo finestre e portoni furono richiusi e la casa rimase deserta. I domestici dovevano essere usciti da una porta posta sul retro, riservata appositamente a loro. Le veneziane pendevano davanti alle finestre discrete ed altere.
   Ogni mattina si ripetè la stessa scena. Per ben due mesi. Passò l'inverno. Il sole bruciava sempre più radioso e caldo sul pomello del portone, tanto che verso mezzogiorno pareva sciogliersi e già credevo di udirlo cadere giù sul selciato in gocce sonore, come la ceralacca su una lettera. Ma il portone restava chiuso.
   Domandai alla mia locandiera. Di fronte, mi disse, abita un vecchio signore che viene ogni anno per due mesi. Presto dovrebbe essere qui.
   Un giorno arrivò. Entrò lntamente, a bordo di una grande macchina nera, dentro il portone spalancato. Nel pomeriggio apparve sul balcome. Si appoggiava ad un bastone e un alano lo accompagnava lento, come se compiesse un cerimoniale. Indossava un panciotto bianco e una giacca scura, e il suo volto era gentile, scarno grigio e senza barba; il naso era affilato e aspro come il contorno di un'arma bizzarra. I suoi occhi erano grigi, stretti e guardavano direttamente verso di me senza farsi notare. Era come se quegli occhi non dovessero  trasmettere alla coscienza del vecchio le immagini del mondo esterno, bensì come se sviluppassero delle immagini che avevano conservato intimamente sulla loro stessa retina. Ogni pomeriggio il vecchio compariva sul balcone. Un servitore gli portava un cappello. Il vecchio se ne stava lì e guardava verso di me.
   Un giorno, era passata circa una settimana dal suo arrivo, salutai il vecchio signore. Lui ricambiò, esitante ma in modo chiaro. Ci guardammo l'un l'altro. Prima di lasciare il balcone mi fece un cenno col capo, frettoloso: E ogni giorno, per sette giorni, si ripetè la stessa scena. Circa dieci giorni dopo il vecchio morì. All'improvvido, durante la notte. Me lo raccontò la mia locandiera. Nella strada silenziosa la gente umile parlava della morte del vecchio: un ciabattino, un carboniao e i portieri. Io guardavo il funerale  dalla finestra; per un momento meditai se non dovessi andare anche io al cimitero. Ma la solenne magnificenza dei familiari in lutto, fieri e distaccati mi inimorì. La casa restò chiusa e silenziosa. Pensavo alla crudeltà del vecchio - che era ritornato a casa così freddo e quasi inumano prchè la morte già lo aspettava, e che probabilmente aveva vissuto senza amoreed era stato solo un amministratore  della sua ricchezza - quando il famoso notaio M., di cui conoscevo il nome, si fece annunciare presso di me. Il notaio mi consegnò una letterae disse che era delmiop vicino, il cui testamento era stato aperto il giorno prima. Nel testamento il vecchio aveva stabilito che il notaio mi avrebbe dovuto consegnare la lettera personalmente. "Uno dei suoi capricci!" disse il notaio, e se ne andò.
   La lettera diceva così:

"Egregio Signore,
come può vedere, sono riuscito a sapere il suo nome: Perchè?
Perchè mi sono affezzionato a lei. Lei è l'unica persona che
avrebbe potuto essere mia amica, perchè ha mantenuto le
distanze sebbene le fossi simpatico, e il silenzio, nonostante
fosse curioso. Lascio in eredità soltanto debiti, altrimenti lei
sarebbe il mio erede. Conservi di un piacevole ricordo.
                                                                                                                      Il suo I.B.

Il giorno dopo traslocai in un altro vicolo.