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sabato 2 luglio 2016

Il presente stantio

L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, esplosione di un bubbone che ha lungamente covato il suo potenziale infettivo, è un fatto estremamente grave a prescindere dalle sue ricadute economiche. Ha un carattere razzista innegabile e non è un fatto isolato, ma espressione di una tendenza generale, diffusa e contagiante, tra i popoli d’Europa. Segnala che il rigetto dell’alterità stia facendo un temibile salto di qualità: l’avversione nei confronti dello straniero risucchia anche il vicino di casa, lo rende irriconoscibile, un estraneo.
Tra i tutti i narcisismi identitari, il più insidioso è quello delle piccole differenze, quando le dispute tra contrade diventano un muro invalicabile. Sostituire la prossimità con l’indifferenza, colpisce l’apertura alla vita nelle sue radici, cancella l’altro come parte di sé. La convinzione di poter fare da soli è il primo passo verso il più catastrofico dei conflitti, quello che si dissocia dal desiderio.
L’analisi del voto rende questa prospettiva, ormai a portata di mano, raccapricciante. Genitori/nonni hanno votato contro il figli/nipoti, in grande maggioranza favorevoli alla permanenza. Non è stato un conflitto generazionale, ma un figlicidio: la rottura della catena di trasmissione tra le generazioni, il rifiuto di passare il testimone, la pretesa di istituire il passato come futuro. Non è una bizzarria inglese: è la mentalità anonima che governa i nostri destini. In definitiva, cos’è il razzismo se non la più radicale chiusura alle trasformazioni, l’impossibilità di riconoscersi nel cambiamento che imprime la presenza di un figlio, del creato comune partorito dall’incontro e dallo scambio?
Sarebbe bello riporre nelle nuove generazioni le speranze di un riscatto, tifare per la loro voglia di ribellarsi. Non è così semplice. Il vecchio governa il mondo impadronendosi del nuovo, corrompendolo. I giovani inglesi saranno favorevoli all’Europa, ma è stata la loro massiccia astensione dal voto, pari al fervore per un mondo aperto, a favorire il campo avversario. Pare che le pessime condizioni meteorologiche non li abbiano invogliati. L’appuntamento con l’avvenire può attendere.
Il principio che sottende la nostra esistenza è il vecchio che non passa: lo stantio. Il cattivo odore lo si percepisce, ma ognuno lo attribuisce a ciò che preferisce (le scelte abbondano). Si ritiene che la saggezza della vecchiaia stia nell’esperienza che consente di calcolare, con uno spirito di prudenza, possibilità e pericoli.
In realtà il vecchio saggio è guidato dalla passione e, memore dei suoi errori, misura la vita con un’inedita apertura del pensiero e degli affetti, che lo riporta a sentirsi giovane. I tempi sono ingenerosi con lui, l’hanno privato del suo specchiarsi nello sguardo ardito dei giovani. Siamo fermi tra la gioventù appassionata che non addiviene e la vecchiaia saggia in pensione, in mezzo ai contabili di tutte le età: l’aritmetica è la loro arte del vivere.
Il legame tra uno sviluppo tecnologico impressionante e la produzione crescente di malessere, mostra che non è la crisi economica a determinare la crisi etica (il disagio della civiltà in cui siamo immersi): è vero l’opposto. La fredda gestione numerica del lavoro e delle risorse, la dittatura impersonale che ci domina, è espressione di una ripetizione del medesimo. Al raggrinzamento della vitalità di un corpo sociale raffermo, corrisponde una concentrazione immensa dei beni materiali.
Non sono beni finalizzati a un piacere reale, ma a riprodurre gli ingranaggi che li producono. Il trionfo annunciato dello scheletro sulla carne viva.
[Sarantis Thanopulos 2/07/2016]

venerdì 1 luglio 2016

La Brexit apre una falla nel Ttip


Poco più di un mese fa è stata istituita la «sala di lettura» presso il Ministero dello Sviluppo Economico del Ttip, il trattato euro-americano sul libero commercio. Una «sala lettura» per permettere ai parlamentari di leggere la bozza dei negoziati in corso. 800 pagine (in nove plichi) da leggere in un’ora (questo il tempo concesso), lasciando fuori della sala di lettura telefonino e computer, senza la possibilità di fare le fotocopie e sotto il controllo vigile di un funzionario del ministero: infatti si possono prendere solo appunti ed è vietato ricopiare le frasi del trattato.
Infatti la bozza del trattato è «segreta»: gli si può dare un’occhiata, ma non troppo. Il Ministro Calenda ha detto che i negoziatori non possono farsi “imbrigliare” dal parlamento e si oppone al diritto dei parlamenti nazionali di ratificare l’altro trattato gemello (tra Unione Europea e Canada): il Ceta. In realtà è il parlamento ad essere imbrigliato (e tenuto all’oscuro) dai negoziatori europei e dal business delle multinazionali (americane ed europee), le vere beneficiarie di questo trattato.
Un trattato che costringerà gli europei (in cambio dell’abbassamento dei dazi americani) ad allentare gli standard ambientali e sanitari su una miriade di prodotti, beni e servizi: dal settore agroalimentare (il cibo che ci mangiamo) a quello tessile, dai servizi pubblici al welfare. Dalle etichettature dei prodotti (avremo meno informazioni su cosmetici e prodotti alimentari) alla sicurezza delle automobili (i test per la sicurezza degli abitacoli saranno ridotti al minimo), dalle denominazione di origine (che fine faranno i nostri Dop e Docg?) agli Ogm (cui si danno nuove chances) fino al mancato rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: il Ttip è una sorta di Waterloo europea per i diritti sociali e dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la coesione sociale del nostro continente, per la democrazia. Ci rimetteranno anche i piccoli produttori, che saranno spazzati via dalle nuove regole.
Il tutto sacrificato sull’altare degli interessi delle multinazionali, di una visione ideologica del libero commercio, della supremazia di un mercato senza limiti. Anche a costo di dar vita ad una sorta di arbitrato privato cui gli Stati saranno chiamati a rispondere, nel caso approvino leggi a tutela dei consumatori e dei cittadini (ma che danneggino le multinazionali).
La potestà legislativa degli Stati sarà messa sotto tutela dalle imprese e il principio di precauzione (cioè la cautela su aspetti controversi riguardo alla salubrità di prodotti e merci) andrà alle ortiche: l’onore della prova (se un prodotto fa male) graverà sulle spalle di cittadini e consumatori.
Il prossimo 11 luglio inizierà un altro round di negoziati a Bruxelles tra europei ed americani. Non è detto che si concluda positivamente. I britannici erano tra più strenui sostenitori del trattato e con la Brexit i neoliberisti della Commissione perdono un importante alleato. La Francia si oppone a tante parti del trattato (che danneggerebbe numerosi suoi beni e servizi: prodotti alimentari, settore audiovisivo,), mentre l’Italia, con il ministro Calenda, continua ad essere allineata nelle schiere degli ortodossi del Ttip.
La campagna Stop Ttip (che organizza il prossimo 5 luglio alla Camera dei deputati un importante confronto con il Ministro dello Sviluppo Economico) invita il nostro governo alla trasparenza, al coinvolgimento del parlamento e dice una cosa che va sostenuta: bisogna togliere il mandato di negoziare ai funzionari di Bruxelles. Bisogna ricondurre il potere di decidere su materie così importanti al parlamento europeo e alle assemblee elettive nazionali.
Magari qualcuno, su a Bruxelles, può pensare che dopo la Brexit, si tratta ora di dare un forte segnale di decisionismo europeo, accelerando e concludendo la trattativa sul Ttip. Sarebbe una sciagura che pagheremmo cara: un ulteriore regalo al neoliberismo, alle multinazionali e alle lobby. Così si costruisce l’Europa dei mercanti, non dei cittadini. E non si va lontano.
[Giulio Marcon 1/07/2016]

martedì 28 giugno 2016

Cameron, un capitano sul Titanic


A tre giorni dal più grande evento storico ed istituzionale europeo dal Secondo dopoguerra, al pari della caduta del muro di Berlino, il paese si confronta con le conseguenze della decisione presa dai 17 milioni di elettori che hanno votato per l’uscita dalla Ue. Il clima è chiaramente ancora di sgomento, come evidenziano le prime pagine di lunedì di due quotidiani agli antipodi: al posto delle consuete soubrette e calciatori, Metro mostrava una foto notturna di Westminster col titolo “Le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno”, mentre sulla prima del Financial Times campeggiava un lugubre sfondo nero. «Almeno il titanic aveva un capitano», scriveva il Guardian in un editoriale.
Pur essendo ridotto politicamente a un ologramma, è ancora David Cameron quel capitano, e in quella veste ha presieduto la prima riunione di gabinetto dopo il quasi singhiozzante annuncio di dimissioni venerdì scorso. Il suo portavoce ha subito escluso che la strampalata iniziativa di indire un secondo referendum a rettifica di quello che ha appena sancito l’ineluttabile Brexit si possa praticare, con buona pace dei tre milioni – parte di cui era gonfiata dall’intervento di alcuni hacker – di firme che hanno intasato in poche ore il sito delle petizioni online del governo. Ciononostante, la questione rimane in piedi: a parte l’avvocato Geoffrey Robertson, che, facendo leva sull’oralità della costituzione, sempre dalle pagine del Guardian avverte che è comunque il parlamento britannico a dover approvare l’avvio del ritiro dall’Europa, c’è la netta opposizione di Nicola Sturgeon, che non ci sta a vedere la devoluta Scozia, in maggioranza per il remain, trascinata fuori contro voglia dall’Europa. Già venerdì scorso, Sturgeon aveva detto chiaramente che un nuovo referendum scozzese è probabile.
Cameron ha poi parlato ai Comuni nel primo pomeriggio, delineando i futuri passaggi della negoziazione per l’uscita a fronte di quella che sarà la sua imbarazzante comparsa davanti ai colleghi europei a Bruxelles martedì. Ha annunciato la costituzione di una task force amministrativa che se ne occuperà, con l’apporto di figure tra le «migliori e più intelligenti» di Westminster sotto la guida di Oliver Letwin e cui parteciperanno i parlamenti devoluti di Scozia e Galles, oltre che l’amministrazione della capitale. Ha condannato gli episodi di razzismo e intolleranza che hanno preso di mira membri della comunità polacca e cittadini perfettamente britannici di origine asiatica e assicurato che non vi sarà alcun mutamento nello status dei cittadini comunitari che vivono in Gran Bretagna. Ha poi ribadito le assicurazioni che il cancelliere George Osborne aveva fatto qualche ora prima allo scopo di rassicurare sulla tenuta dell’economia.
L’ologramma sarà poi sostituito con una persona politicamente in carne ossa subito dopo l’estate, almeno stando al 1922 Committee, un comitato di backbenchers conservatori che ha stabilito una tabella di marcia: le nomination dovranno essere rese note entro questo mercoledì, e il risultato raggiunto entro il prossimo 2 settembre. Ha anche ribadito che la clausola 50 che dovrebbe mettere in moto la negoziazione del distacco non sarà posta in opera prima di ottobre, ignorando le ripetute pressioni dei ministri degli esteri Europei per una maggiore celerità.
Quanto alla rassicurazione di Osborne, non ha rassicurato un granché. La volatilità in borsa è ripresa poche ore dopo ieri il ministro dell’economia faceva il suo discorso. Le banche britanniche sono crollate per via della loro cospicua esposizione. La vendita delle parzialmente nazionalizzate Royal Bank of Scotland e Lloyds, che Osborne voleva vendere per abbassare il debito non saranno affatto vendute. Sia Barclays che Lloyds hanno perso il 30% del valore, la sterlina è scesa contro il dollaro a livelli del 1985 dopo che i mercati asiatici se ne erano liberati a favore dello Yen. Il budget di emergenza che aveva minacciato in campagna referendaria, attirandosi accuse terroristiche, non si è materializzato.
Quanto al nome del futuro leader, la scelta è abbastanza ristretta, e i nomi più papabili sono quelli di Johnson e Theresa May. Nella loro prima conferenza stampa all’interno del cabinato che fungeva da loro quartier generale, Gove e Johnson sembravano due senili fanciulli scappati di casa e ritrovati dalla polizia sani e salvi dopo febbrili ricerche. La loro vittoria, ottenuta grazie – e soprattutto – alla trucida retorica razzistoide dei creativi di casa Farage, li mette ora di fronte a una serie di test per cui non li si sospetta granché preparati. Dovranno fare una serie di marce indietro soprattutto con quelli che hanno votato leave dopo aver visto il gaglioffo poster di Farage (quello con la scritta “punto di rottura” davanti a una fila di profughi siriani) e che ora si aspettano l’impossibile chiusura delle frontiere. Il loro dilemma principale? Stare nel mercato unico e non poter fare nulla sull’immigrazione, o uscirne innescando una quasi certa contrazione dell’economia.
[Leonardo Clausi  28/06/2016]

giovedì 9 giugno 2016

Una vita in lotta contro la mafia

Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide. Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un «cittadino onesto» e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia, quella vera, silenziosa e normale.
Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E tanti “nipoti”. Non c’è mai stato il mondo delle associazioni imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al «caro estortore».
Ucciso d’estate, Libero. Era il ’91, a Palermo quasi ogni giorno un morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome, nessun logo: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Era il 29 giugno del 2004.
Tredici anni senza Libero. «Mi chiama una giornalista e mi chiede cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori. Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li avrei adottati come nipoti miei e di Libero», racconterà Pina Maisano. E il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: «Siamo i tuoi nipoti». Con quell'”adozione” particolare nasceva Addiopizzo, l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà l’iniziativa del consumo critico antimafioso: un bollino per ogni negozio antiracket “certificato”. E “rinasceva” anche Pina Maisano, non più la vedova di Libero Grassi, ma la “nonna” dei ragazzi che sfidano il racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano.

La diffidenza che si portava dentro

Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella diffidenza che si portava dentro.
Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma. Un anno dopo, era il ’92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai “nipoti” di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie di legalità erano iniziate molto prima del ’91. A capo della Sigma, terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli anni Sessanta s’era battuto perché il «sacco di Palermo» di Vito Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi contro la lobby dei “bombolari”. Aveva poi creato la Solange impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per l’energia solare.
E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e chiedeva aiuto. «Era Marco Pannella – ricorderà Pina Maisano – tra lui e Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto: i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà di tutti i giorni». È così che Grassi si iscrive al Partito radicale, dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione Palermo, votato all’antimafia per denunciare «il sistema di potere Dc» come «espressione della “borghesia mafiosa”».
Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano chiederà conto a Giulio Andreotti. «Era il giorno in cui la giunta per le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale contro di lui – racconterà Pina – Il primo documento a disposizione, 250 pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo, Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana, erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione, non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino, quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?». Il «divo Giulio» promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la memoria: «Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti». Due mondi diversi. Due mondi lontani.

Senza guardarlo negli occhi

Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima scrisse al «Caro estortore…», pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive: «Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato». Parole dure, parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice, Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato acquistare la “protezione” dei boss, quando il presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in risposta a Grassi, che «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Adesso che Pina non c’è più, tocca ai “nipoti” di Addiopizzo. «Hai segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo cresciuti. Grazie, nonna».
[Alfredo Marsala 9/06/2016]

mercoledì 8 giugno 2016

La radicalizzazione lenta del mondo parallelo degli «hui»

In qualunque città cinese ci si trovi, si può star certi di imbattersi in ristoranti con la vetrina abbellita da uno striscione verde e parole scritte in arabo. In caratteri cinesi, questi ristoranti annunciano lamian (un tipo di spaghetti freschi, tirati a mano), e manzo e agnello spolverati di cumino. Ristoranti piccoli e a buon mercato, decorati all’interno da grandi poster di panorami montani e minareti.
I proprietari e gestori di questi locali halal appartengono al gruppo etnico-culturale cinese hui. È la seconda «etnia» cinese musulmana più importante del paese, subito dopo gli uiguri. Si tratta di più di dieci milioni di persone, concentrate nelle regioni del nord-ovest ma sparse anche in tutta la Cina, ma che, contrariamente agli uiguri del Xinjiang, parlano mandarino, e i vari dialetti locali dei posti in cui vivono. Gli hui sono particolarmente numerosi nel Gansu, tanto a Lanzhou (capitale provinciale e patria dei lamian), che a Linxia, una cittadina detta «piccola Mecca cinese»; così come nel Ningxia – la «regione autonoma» a maggioranza hui, dove è appena stato costruito un parco a tema «islamico» per turisti – e nello Shanxi, dove la presenza di questi musulmani assimilati è maggiormente vistosa.
Ma nell’intera Cina i cittadini hui occupano le strade e i quartieri intorno ai loro luoghi di culto, e sono facilmente identificabili: le donne portano l’hijab, lasciando dunque il volto scoperto, e gli uomini, con appena degli accenni di barba, indossano calotte ricamate. Presenti in Cina da secoli, sono separati dal resto della popolazione in particolare dai tabù alimentari.
E se per la maggior parte dei cinesi l’idea di non mangiare carne di maiale è poco appetibile, nessun ristoratore in Cina si stupisce alla richiesta di piatti senza lardo o darou, la «carne grossa»: l’islam degli hui è profondamente parte della Cina. Gli hui sono infatti figli di un meticciato di origine mercantile: i commercianti arabi e persiani arrivarono in Cina fin dal VII secolo, sia lungo la Via della Seta che attraversava l’Asia Centrale che soprattutto lungo quella marittima, che arrivava a Guangzhou (Canton). Erano i secoli della dinastia Tang (618-907), la più cosmopolita della storia cinese, e gli hui ottennero un raro favore imperiale: l’autorizzazione a sposare donne cinesi, dopo che, vuole la leggenda, l’imperatore Taizong (626-649) sognò che dei saggi uomini dall’Occidente in turbante verde l’avrebbero aiutato a risolvere svariate difficoltà di governo.
Da allora, gli hui esistono in Cina in modo parallelo, assimilati al resto della popolazione per lingua ed aspetto, presenti in ogni mercato, in ogni porto, in ogni città di transito. Sono i musulmani grazie a cui la Cina può mostrare di non avere un problema con l’Islam per se, ma solo con il «separatismo uiguro». Anzi: percorrendo le aride strade del Ningxia e del Gansu le moschee nuove, appena costruite sono onnipresenti, ed il richiamo alla preghiera del muezzin risuona forte, diffuso da altoparlanti elettrici proibiti nel vicino Xinjiang.
La loro presenza centenaria in Cina fa sì che non solo l’Islam sia visto come una religione in un certo senso di casa, malgrado le sanguinose rivolte musulmane che ebbero luogo nel 19esimo secolo, quando la dinastia Qing (1636-1911) mostrava le sue debolezze, ma anche che la loro esistenza possa essere utilizzata come ponte privilegiato fra la Cina e i Paesi a maggioranza musulmana. È anche un elemento importante con cui Pechino promuove la sua spinta verso Occidente del progetto «One Belt One Road», serie di iniziative diplomatiche e di infrastrutture con cui la Cina vuole consolidare la sua presenza nel mondo.
Contrariamente agli uiguri conquistati e colonizzati in epoche più recenti, gli hui non hanno rivendicazioni territoriali, e non subiscono la convivenza con gli altri cinesi come l’invasione della loro terra ancestrale. La moschea di Huisheng, a Guangzhou, con accanto il più antico cimitero musulmano cinese, fu eretta più di 1.300 anni fa (e ricostruita a varie riprese), quando Taizong approvò che i mercanti arabi risiedessero in Cina. Dagli anni Ottanta ad oggi, è stata meta di pellegrinaggi religiosi, e di visite di potenziali investitori dal Sud-Est Asiatico musulmano e dai Paesi del Golfo.
Scambi grazie a cui Pechino vorrebbe proporre la vicina Hong Kong come piattaforma finanziaria musulmana, e affermarsi come primo esportatore al mondo di cibo halal e altri prodotti «islamici» (in particolare di abbigliamento ed elettronica) con parchi industriali appositi.
Ma negli ultimi anni nemmeno la comunità hui è stata immune dalle tensioni politiche, e dalle seduzioni del salafismo. Musulmani sinizzati, certo, ma non per questo indifferenti a quanto avviene nel resto del mondo e della Cina: man mano che la repressione in Xinjiang ha portato all’arresto degli imam considerati troppo poco patriottici, ecco che gli imam hui hanno dapprima sostituito i loro confratelli uiguri, scontrandosi però con la stessa interferenza religiosa. Ed anche fra gli hui – che non hanno le stesse difficoltà ad ottenere un passaporto riscontrate invece dagli uiguri – si trovano giovani studenti islamici rientrati dall’Arabia Saudita determinati a rendere l’islamismo della loro comunità più «puro» e vicino al wahabismo saudita. Diverse scuole coraniche, del resto, sono state recentemente chiuse, e non è più permesso accettare finanziamenti esteri per la costruzione delle moschee.
Una radicalizzazione lenta e fin’ora poco visibile, saltata maggiormente alla ribalta lo scorso dicembre, quando Daesh per la prima volta ha diffuso via internet una canzone in mandarino, in cui incita i veri musulmani a «svegliarsi» e «impugnare le armi per combattere». La voce registrata ha un accento del nord-ovest, forse proprio del Gansu, e l’episodio, che ha ricevuto scarsa pubblicità in Cina, sembra essere stato però preso seriamente dalle autorità. Gli sviluppi di questa relazione poco nota sono dunque tutti da osservare.
[Ilaria Maria Sala 8/06/2016]

giovedì 26 maggio 2016

Il cambiamento ci salverà

Fra i paesi che per la prima volta si affacciano in Laguna, come presenza inedita alla Biennale Architettura, quest’anno ci sarà anche la Nigeria (gli altri sono Filippine, Seychelles e Yemen). A dialogare con il tema scelto dal curatore Alejandro Aravena – Reporting from the front – ci sarà così l’artista e architetto Ola-Dele Kuku con la sua mostra Diminished Capacity allestita allo spazio Punch, da oggi al 27 novembre.
Lo sguardo sui mondi abitabili del futuro comincia dunque da un continente-mosaico come l’Africa in uno spazio espositivo che perde i suoi connotati e in cui vari «oggetti feticcio inviteranno i visitatori a porsi degli interrogativi», come spiega la curatrice Camilla Boemio. E già l’installazione centrale suonerà come un avvertimento: Africa is not a country! è, infatti, la grande scritta al neon che viene associata alle prime parole della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Ola-Dele Kuku, studi a Los Angeles, vive e lavora a Bruxelles, ha una posizione obliqua rispetto all’architettura. Non ama l’idea di «funzionalità» e preferisce introdursi in quel mestiere sfoderando una buona dose di esercizio critico. «L’architettura è una esperienza continua, un’evoluzione – afferma -. È anche un principio di pura identità. Gli egiziani facevano piramidi, i greci erigevano colonne, i romani disegnavano archi. Oggi, l’architettura finisce per essere un mero edificio, occupato da persone che vivono con stili e adattamenti diversi. Io la considero una forma di deterioramento. Manca l’aspetto spirituale, quella forza trainante che conduce a rappresentare l’ignoto, a catturare qualcosa di immateriale. L’economia domina e non c’è respiro per le arti. Forse le nostre società, confrontandosi con la nozione di conflitto, disastro e distruzione, riattiveranno alcune risposte».

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Teatro Dell’archivio, 1996 © Ola-Dele Kuku Projects / courtesy Philippe Laeremans Tribal Art Gallery, Bruxelles
Cosa ha voluto indicare nel titolo, insistendo su quella «capacità ridotta»?
Le aspirazioni degli individui si esprimono in termini di apprensione psicologica o di aspettativa rispetto ai desideri e alla loro realizzazione. Così l’analisi spazio-temporale della interrelazione tra persone e ambiente sociale può fornire una sintesi di geografie comportamentali, culturali, storiche e politiche. I limiti spaziali e temporali sono meccanismi che facilitano e frenano le imprese umane e si riflettono sulla comunità, soprattutto nella disposizione e manipolazione del territorio geografico.
Considera il conflitto un motore creativo, spiazzante?
È parte integrante della formazione ed evoluzione di un sistema sociale. Il conflitto è un dispositivo che istiga al cambiamento, evitando l’omologazione. È un fenomeno che si materializza sotto forma di vari «eventi vitali» – guerre, catastrofi naturali, emigrazioni, nascite e morti. Sono queste le «varianti» che preludono alle trasformazioni della società. Il conflitto è un processo di modificazione che stimola adattamenti e nuove condizioni di sviluppo. In genere, la sua ricomposizione è un obiettivo primario della progettazione sociale. Richiede l’abilità di anticipare gli eventi futuri, valutando le soluzioni e anche la capacità di un pensiero originale, in grado di ottenere soluzioni soddisfacenti.
Guerre, dislocamenti e calamità naturali stanno spostando i confini. Si creano così territori che manifestano uno sviluppo discontinuo e un governo non sostenibile. È un processo di transizione che genera inediti modelli demografici. In più, la concentrazione sproporzionata della popolazione in specifiche aree rende necessari elementi di controllo. Questi territori diventano piattaforme fondamentali per alcuni interventi innovativi, che però richiedono un approccio sistematico e costante nel tempo. I corsi per una ricostruzione post-conflitto dovrebbero entrare nelle istituzioni accademiche dove si studia l’architettura, il design, le arti applicate, la sociologia, la psicologia e la letteratura.
Con il padiglione della Nigeria per la prima volta alla Biennale c’è la possibilità di riscattare l’Africa dagli stereotipi e dalle letture neocoloniali. Concorda?
Parole come Londra, Parigi o Roma non avrebbero senso se non vi fosse alcun riferimento immaginabile, nessuna associazione. Così Parigi potrebbe essere la proiezione mentale della Torre Eiffel, Londra del Big Ben e Roma si può ispirare al Colosseo. Sono immagini che trasmettono una raffigurazione delle realizzazioni e le potenzialità delle persone. A loro volta, illustrano la sintesi di individuo-ambiente, la loro interdipendenza. Cotonou, Ouagadougou, Lome, Freetown, Accra, Yaoundé, Ijebu-Ode e altre grandi città africane devono ancora trovare le loro immagini simboliche, un’identità. Credo che l’ostacolo maggiore sia l’idea sbagliata che scaturisce da un’errata interpretazione della differenza tra cultura e tradizione. La tradizione è un concetto che si riferisce al passaggio di credenze da una generazione all’altra. La credenza dà fiducia a ciò che è sconosciuto e lo rende vero e reale, non ragiona su ciò che è buono o ideale, è opposta al cambiamento. Nelle società in evoluzione, le dinamiche culturali – muovendosi in parallelo alla sensazione ambigua e statica della tradizione – saranno sempre fonte di disorientamento e polemiche. Oggi non ha senso lottare per un’identità tradizionale: le società, attraversate da molteplici tendenze, sono in perenne metamorfosi. I mutamenti sono le uniche certezze. Il Cultural Mapping Project, in corso dal 2002, è stato pensato da me in collaborazione con L-Arn (Laboratorium – Academic Research Network) di Bruxelles e con The Creative Intelligence Association di Lagos, in Nigeria. È il risultato di intensi dibattiti accademici e dello studio di casi concreti, che indagavano la possibilità di rigenerare le città africane contemporanee.
Nella sua installazione, lei ha tenuto a specificare che «Africa is not a country»…
L’errore più comune è l’uso improprio che si fa della parola «Africa». Al momento, ci sono cinquantatré paesi in Africa, ognuno con una distinta identità culturale. Quindi, l’Africa non è un paese, ma un continente. Pertanto, i valori di ogni paese sono le strutture simboliche vitali che servono per costruire l’immagine di quel luogo stesso.
È importante la sua origine yoruba nelle pratiche artistiche?
«Yoruba» non riguarda solo le persone. È una religione, una filosofia e una struttura sociale. Il cosmo yoruba comprende la consapevolezza dei limiti temporali dell’essere, in altre parole invalida ogni valore assoluto. Filosofia e religione yoruba sono sopravvissute a quattrocento anni di schiavitù, sono ancora rilevanti in Brasile, Cuba, Haiti e in altre società che hanno avuto a che fare con la tratta degli schiavi provenienti da «Yorubaland».

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Ola-Dele Kuku
Lei vive a Bruxelles, città con un forte métissage culturale, divenuta adesso il crocevia della paura. Possono l’architettura o l’arte arginare la deriva securitaria e la tentazione dell’Europa di reinnalzare muri e barriere?
Non va dimenticato che il Belgio è stato il campo dove si sono svolte alcune delle più grandi battaglie della storia – da Napoleone a Hitler, da Waterloo a Dunkerque! Ora Bruxelles è la capitale dell’Unione europea. La mia domanda è: «Perché tutti scaricano i loro problemi in Belgio?». L’architettura dei muri e delle barriere ha una lunga storia in Europa – dal Vaticano a Buckingham Palace. Anche il giardino dell’Eden era recintato, Adamo e Eva furono espulsi. Proprio come il cuore è nascosto nel corpo, ciò che è prezioso richiede protezione. Il muro è uno dei mezzi più efficaci di separazione per reagire alla paura collettiva di una intrusione (naturale o antagonista), e sembra rivelarsi fondamentale durante la formazione di una società.

domenica 15 maggio 2016

Un gigante poco eversivo

Uscito in libreria lo stesso anno in cui E.T. è arrivato nei cinema, The Big Friendly Giant (Il grande gigante gentile, pubblicato in Italia da Salani, nel 1987) è uno dei grandi scritti di Roald Dahl, un dissacrante, buffissimo, ottovolante di giochi di parole, pieno di viaggi ai confini del mondo, grondante del sangue di bambini divorati da cannibali alti come montagne, fetido dei peti provocati da una bibita esilarante, con bolle che vanno a fondo invece di venire a galla, e in cui lo spirito combattivo di un’orfanella londinese e la mite saggezza di un gigante vegetariano seducono persino la regina d’Inghilterra.
Dopo Wes Anderson (Fantastic Mr. Fox), Tim Burton (Willi Wonka e la fabbrica di cioccolato), Henry Selig (James and the Giant Peach), e il presidente della giuria di Cannes 2016 George Miller (Le streghe), è Steven Spielberg a misurarsi con l’inesauribile fantasia dello scrittore inglese, di cui quest’anno si celebra il centenario. Il risultato, The BFG, presentato al festival fuori concorso, è un film molto bello da guardare ma meno dahliano, e ispirato, di quello che speravamo. Spielberg, e la sceneggiatrice di E.T. Melissa Mathison (scomparsa l’anno scorso, questo è l’ultimo copione che ha scritto), sciolgono il furioso ritmo impresso sulla pagina in una narrazione contemplativa, tranquilla, evitando di avventurarsi nei meandri più paurosi e dissacranti del libro di Dahl e riducendo (probabilmente giocoforza), lo sparring verbale tra il gigante e la bambina; ma rinunciano così a una buone dose di spessore emotivo e filosofico. Oltre che di humor.

Forse la qualità anarchica, dark, costruttivista e spesso distruttiva, dell’immaginario di Dahl lo rendono più idoneo alla malinconia perversa del cinema di Tim Burton e alla materia ossessiva di quello di Wes Anderson, che alla luccicanza di Spielberg, la cui magia, evidentemente, resiste l’idea di decostruire se stessa. Dopo tutto, anche se Spielberg lo ha prodotto, è stato Joe Dante a dirigere Gremlins, un film ispirato da creature mitiche, cattivissime, votate al sabotaggio e alla sovversione, a cui lo scrittore inglese aveva dedicato un altro dei suoi libri.
The BFG inizia nel cuore della notte. È – ci spiega Sophie (l’esordiente inglese Ruby Barnhill), che soffre d’insonnia – l’ora delle streghe. Non è una strega, però, quella che, infilando una mano enorme dalla finestra, strappa la bambina al letto dell’orfanotrofio dove abita, bensì un signore alto, una decina di metri e dotato di orecchie enormi e sensibili. Ancora avvinghiata alla trapunta, in cui era avvolta, Sophie vede scorrere davanti a sé, a grande velocità, mari e montagne, fino alla dimora del suo rapitore, che sono una caverna nel paese dei giganti. Nonostante l’armamentario di cucina e una breve permanenza in padella, la bimba scopre presto che il Grande Gigante Gentile (Mark Rylance, la spia sovietica di Il ponte delle spie, qui rielaborato con la magia dell’animazione motion capture), che la tiene prigioniera, non solo non ha intenzione di farle male: è vegetariano, condannato a nutrirsi di putridi cetrionzoli, bianco/verdi e pieni di vermi, che sono l’unica cosa che cresce lì intorno.
Purtroppo, la avvisa però il GGG, non sono vegetariani i suoi simili, che rumoreggiano fuori dalla porta – nove in tutto, con nomi evocativi come (nella traduzione italiana del libro) il ciuccia-budella, il trita-bimbo, il succhia-ossa, lo spella-fanciulle e il sanguinario. Molto più grandi e rozzi del GGG, questi cannibali X large, partono per regolari spedizioni notturne di caccia, durante le quali danno sfogo alla loro passione per carne giovane quindi tenerissima. Regolarmente schernito e brutalizzato dagli altri, anche il GGG ha un hobby: la raccolta dei sogni, di tutti gli umori e i colori possibili, che colleziona in centinaia di barattoli trasparenti nella sua caverna e che, con il favore delle tenebre, poi inietta nel sonno degli umani dormienti. Nella spedizione di Sophie e del GGG in cerca di sogni, Spielberg crea alcuni dei momenti visivamente più incantevoli e complessi del film, con giochi cromatici, di superfici traslucide e di sotto/sopra. Rylance dà al gigante una calma benevola, rassicurante, qualità completamente opposte a quelle che probabilmente gli avrebbe portato Robin Williams, l’attore che i produttori Kathleen Kennedy e Frank Marshall volevano quasi vent’anni fa, quando iniziato a sviluppare il progetto (Spielberg lo aveva già scritturato nel ruolo di Peter Pan).
Guardando The BFG, viene in mente anche la trasposizione di Bob Zemeckis del dickensiano A Christmas Carol, un capolavoro di motion capture animation a cui l’animazione e l’ideazione del gigante di questo film devono molto. Ma di cui qui manca l’energia eversiva portata a Scrooge da Jim Carrey.
[Giulia D'Agnolo Vallan]

domenica 1 maggio 2016

Chiara Saraceno: «Un reddito di base contro i ricatti del lavoro povero»


Chiara Saraceno, sociologa e autrice del libro «Il lavoro non basta» (Feltrinelli) ha raccontato di essere stata pagata con un voucher per una lezione.
«Credevo di essere un’eccezione, ma ho scoperto di non essere l’unica tra chi fa ricerca – afferma – Non ho certo il profilo di chi lavora con i voucher. Quando è successo ero già in pensione. Il voucher non è solo una forma leggera di lavoro nero, ma è anche una forma di elusione fiscale non voluta dal lavoratore. Legalmente il denaro guadagnato con i voucher è esente da tasse e quindi è conveniente. Il dramma è che questo strumento è diventato la nuova frontiera del lavoro, non solo a tempo, ma precarissimo. Non era stato pensato così all’epoca della riforma Biagi. Allora c’era la positiva intenzione di fare emergere il lavoro nero e assegnare un minimo di contributi ai lavoratori molto occasionali. Il caso classico è la studentessa che fa la baby sitter o chi fa il commesso fa il commesso nei negozi per poche ore. Oggi invece è diventato una forma per passare al nero al grigio. Al datore di lavoro può convenire pagare un po’ in voucher, un po’ in nero. Se in un cantiere c’è un incidente, può sempre dire che quel giorno l’incidentato lavorava con il voucher. Pensato per essere usato per picchi produttivi, questo buono viene usato per pagare normalmente”.
La tracciabilità dei voucher proposta dal governo contrasterà questo fenomeno?
Non credo. Con la tracciabilità si dovrà dichiarare in anticipo per chi e per quante ore è stato usato. Ma questo non esclude che poi ci sia il nero: che si dichiari cioè di avere pagato con voucher per duemila euro per un tot di numero di ore. Il lavoratore potrà essere costretto a lavorarne altrettanto in nero. È importante che si facciano più controlli. Il sindacato dovrebbe essere molto più attento. I voucheristi sono molto ricattabili. Se denunciano, nessuno li riassume.
Il voucher inaugura una nuova epoca del precariato?
La diffusione abnorme di questa forma di pagamento tutto sommato marginale è dovuta alla capacità dei datori di lavoro di sfruttare ogni possibilità dei contratti per fregare i lavoratori. Non vale per tutti naturalmente. Accadde lo stesso con i cocopro. Il progetto in questione è diventato il fine, e non la causa, per fare questi contratti. Risultato: esistono persone che hanno lavorato con un cocopro per anni. Soprattutto per lo Stato italiano. Oppure nei consultori dove si può avere lo psicologo solo se ci si inventa un progetto. Questo progetto serve a giustificare un lavoro di routine.
È passato del tempo dalla riforma dei contratti a termine, un aspetto non molto citato del Jobs Act. Qual è il bilancio?
È assolutamente contraddittorio rispetto al contratto a tutele crescenti. Un lavoratore può essere contrattualizzato a termine e rinnovato fino a cinque volte. Resterà sempre precario con il terrore che non sia rinnovato. Se è fortunato può avere un contratto a tutele crescenti dove continuerà a essere precario. Questo diventa un periodo di prova allungato smisuratamente fino a otto anni. Il lavoro diventa una corsa ad ostacoli, senza contare che è molto più facile licenziare oggi.
La maggioranza dell’occupazione prodotta è data dal rinnovo dei contratti e riguarda gli over 50. Come si spiega questo andamento?
Da anni tutti gli interventi sul lavoro insistono sul lato dell’offerta per rendere i lavoratori più flessibili e meno costosi. In italia abbiamo il problema opposto: quello della domanda di lavoro e imprese non competitive che non sono in grado di stare sul mercato internazionale e non investono su quello nazionale. I governi potranno tagliare il costo della forza-lavoro perché un’impresa assuma. Ma se non c’è una vera ripresa e le imprese non diventano più efficienti, questo non avverrà.
La politica del governo Renzi va in questa direzione?
Assolutamente no, Sostengono che dipende dal mercato e che la politica non c’entra nulla. Hanno erogato miliardi di incentivi alle imprese a fondo perduto, senza chiedere una contropartita in nuova occupazione.

venerdì 22 aprile 2016

In morte di Prince, Spike Lee: «Ho perso un fratello»


La notizia della morte del folletto del funk è rimbalzata prima ufficiosa sui siti del sito scandalistico americano Tmz – e in molti sui social hanno pensato e sperato nell’ennesima bufala, per poi rivelarsi terribilmente vera. Il corpo di Prince, 57 anni – vero nome Prince Rogers Nelson, è stato ritrovato nella sua villa – che era diventata anche il suo personale studio di registrazione, di Channassen in Minnesota, privo di vita.
Al momento di andare in stampa, le cause della morte sono ancora ignote. Prince era stato ricoverato d’urgenza giorni fa per una forma influenzale – almeno così era stato riferito alla stampa – che l’aveva costretto ad annullare numerose date del tour americano. Ma il giorno dopo la star era comunque apparsa a un concerto assicurando i fan che era tutto ok. Stessa versione ufficiale rilasciata dal suo agente: «si tratta soltanto di una brutta influenza». E invece ieri la notizia di un improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute ha cominciato a trapelare, dapprima sotto forma di tweet inviato da una reporter della stazione televisiva locale KSTP (Farrah Fazal) via Twitter. A seguire l’ammissione da parte dell’ufficio dello Sceriffo della contea di Carver che parlava della morte di un uomo, fino alla conferma ufficiale, dall’addetto stampa inglese di Prince, intervistato dal Telegraph.
Prince stava combattendo contro una forma influenzale da un mese, tanto che durante un viaggio l’aereo su cui viaggiava aveva dovuto effettuare un atterraggio d’emergenza. Poi la riapparizione ad Atlanta, per una performance in tono minore, in cui lo stesso Prince si è scusato con i fan per la sua voce non proprio perfetta.


La morte ha scatenato le reazioni sui social media, e su facebook, twitter e Instagram è un susseguirsi incessante di messaggi di cordoglio. Sul sito del New York Times piovono post e interessanti raffronti: «Per me – scrive TheJadedCynic – la sua morte è più scioccante di quella di Michael Jackson, che era accettato pur nella sua eccentricità, mentre Prince era molto più sovversivo. La sua sessualità, la sua musica, la presenza andavano nella direzione opposta di quella più commerciale di Jacko». Anche colleghi, politici e personalità del mondo del cinema lo hanno salutato via social, tra i primi a ricordarlo la figlia di Hillary e Bill Clinton, Chelsea: «Grazie Prince. Tutti i miei pensieri e le mie preghiere sono con le persone che amavi».
«Prince, eri una leggenda, riposa in pace», scrive la popstar Lily Allen. E c’è Madonna – che con il folletto aveva duettato in una non memorabile Love song inserita nell’album Like a prayer (1989)-: «Sono devastata perché è un artista che ha cambiato il mondo. Lui è stato un visionario vero». Dal suo profilo, l’attore Samuel L Jackson scrive: «Un’enorme perdita per tutti noi! Che genio! Sono senza parole». Triste anche l’ex Take That Robbie Williams: «Ora anche Prince. No, no, no… Riposa in pace genio». Incredulo appare Spike Lee: «Ho perso mio fratello» scrive in tweet. Personale invece è il ricordo dell’attore australiano Russell Crowe: «È stato il più grande live che abbia mai visto. Geniale, poeta, sexy. Riposa in pace, Prince».
[Stefano Crippa 22/04/2016]

venerdì 15 aprile 2016

L’ossessione a pois di Yayoi Kusama


Nagano è una prefettura fra le più grandi dell’arcipelago nipponico e senza dubbio quella più ricca di catene montuose e di zone verdeggianti. Situata nella zona centrale del Giappone, prima del periodo di restaurazione Meiji la zona era conosciuta come Shinano e fra le sue località più importanti c’era sicuramente Matsumoto, città che ha nel vecchio castello, detto «castello corvo» per il suo colore esterno nero, il suo simbolo più importante. Non molti sanno però che proprio a Matsumoto nel 1929 nasce una delle artiste giapponesi più importanti e popolari a livello internazionale che l’arcipelago abbia visto prosperare in questi ultimi 50 anni, Yayoi Kusama. Quarta figlia di una famiglia della borghesia alto media giapponese, Kusama fin da piccolissima soffre di allucinazioni e visioni che la accompagneranno per tutta la vita.


Il tratto ricorrente ed il marchio di fabbrica per cui è diventata famosa sono senza dubbio i pois colorati con cui comincia ad inondare le tele poco più che ventenne, ma che compaiono per la prima volta a soli dieci anni quando ricopre con questi cerchi colorati la figura di una donna col kimono.
Successivamente queste sfere andranno a coprire anche gli interni della sua abitazione e del suo studio ed infine perfino i corpi dei suoi assistenti. L’ossessione per questi pois deriva direttamente dalle sue allucinazioni ed è una sorta di esternalizzazione di questa visione ossessiva che è parte integrante dell’essere dell’artista. Secondo le sue stesse parole «un pois ha la forma del sole, simbolo dell’energia del nostro mondo e della vita, ma anche quello della luna, calma, rotonda, morbida, senza senso e senza conoscenza. I pois diventano movimento…e sono la strada per l’infinito».
A fine anni cinquanta Kusama si trasferisce negli Stati uniti dove conosce, frequenta, si ispira e a sua volta ispira gli artisti americani dell’avanguardia dell’epoca, ritorna in Giappone nel 1973 ma le sue condizioni mentali sono peggiorate e cerca di esorcizzare i tormenti interiori oltre che con l’arte visiva anche scrivendo storie brevi e poemi di tono surrealista. Alla fine decide però di entrare in un ospedale psichiatrico, luogo che le permette, come una novella Robert Walser femminile, di trovare una certa stabilità, luogo che continua ancora oggi ad essere la sua seconda casa.


Una traccia di questo straordinario e doloroso percorso artistico e di vita si trova nel bel museo municipale di Matsumoto che ha una collezione permanente dedicata all’artista, fin dall’esterno dove ad accogliere il visitatore ci sono dei giganteschi fiori fluttuanti. La parte più interessante però è all’interno dove è possibile esperire le opere di Kusama dal periodo giovanile fino a quelle più recenti ed alcune sono davvero notevoli perché si tratta di vere e proprie stanze che accolgono e abbracciano il visitatore. Stanze piene di specchi e pois naturalmente, installazioni con cui si entra quasi fisicamente nel mondo allucinatorio e destabilizzante dell’artista giapponese. Certo questi cerchi colorati sono diventati ora più che mai una sorta di merchandise da vendere e brandire come marchio, nel negozio del museo si vendono portachiavi, tazze e quant’altro e un paio di anni or sono la stessa
Kusama collaborò con Luis Vitton per una linea di prodotti della marca francese.


Ma qui sta il doppio significato della pop art e del mercato dell’arte moderna in generale, una contraddizione che la stessa artista portava alle sue estreme conseguenze già nel 1966 alla Biennale di Venezia quando durante l’esposizione del suo lavoro Narcissus Garden, cominciò a vendere le sfere che componevano l’opera stessa ai visitatori mettendo così in luce l’ambiguità dell’arte contemporanea e della sua necessaria ed inevitabile mercificazione.
[Matteo Boscarol da Il Manifesto del 15/04/2016]

domenica 10 aprile 2016

L’ultimo raccolto strappato alla paura

Vite esemplari. "Al giardino ancora non l'ho detto", di Pia Pera: in forma di diario, l’epilogo di una vita allenata ai distacchi necessari per concedersi, in esclusiva, al più amato dei beni: il proprio spazio verde

Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera (Ponte alle Grazie, pp. 216, euro 15,00) è un finale di partita, la cronaca di una malattia inesorabile, l’ultima immagine del mondo elaborata da un essere vivente che sente arrivare la fine. L’unica forma possibile del libro era quella del diario, proprio perché questa immagine del mondo è mutevole e sfrangiata come una nuvola, e non smette di cambiare e di arricchirsi col passare del tempo, mentre le cose continuano ad andare di male in peggio.
Come la selva oscura di Dante, la malattia è un luogo e una condizione di cui è difficile riferire precisamente come ci si sia entrati. Anche la prima avvisaglia è in realtà una manifestazione dell’irreparabile. Un giorno qualcuno fa osservare a Pia che cammina zoppicando leggermente. Quel minimo atto di consapevolezza è una frattura che inaugura un tempo del tutto diverso da tutto ciò che può essere presentito, immaginato, appreso dall’esperienza di altri. Non solo perché la mente deve adattarsi a un’emergenza. Questo adattamento infatti è di per sé sempre provvisorio, ogni giorno che passa portando ulteriori difficoltà, erigendo nuove barriere fra l’io e il possibile.
Presto diagnosticata, la patologia è di quelle che peggiorano e basta, il massimo della scienza medica consistendo nel rallentarla e poco altro. Il decorso prevede la perdita progressiva dell’uso del proprio corpo: arti, organi volontari, tutto. Non c’è nulla che renda in qualche modo preparati all’appuntamento con la propria sorte. E Pia ci arriva troppo presto, tra i cinquanta e i sessanta, nel pieno delle forze. Ormai da molti anni, si era dedicata completamente a una passione che per molti è un semplice hobby e che per lei era diventata una filosofia e una vera e propria forma integrale di vita. Molte cose della sua vita precedente lasciandosi alle spalle, infatti, Pia Pera ha inventato e accudito uno splendido giardino, nella campagna di Lucca.
È un luogo indimenticabile, in cui ogni minimo dettaglio possiede una storia e un significato ben precisi, ma dove tutto, in virtù di un supremo e definitivo artificio, è dotato della potente, ammaliante bellezza del selvatico. I libri e gli articoli che intanto andava scrivendo, le conferenze, le interviste hanno presto fatto di Pia un’autorità internazionale in quest’arte del giardino che sta conoscendo (a differenza di moltissime altre arti) un’epoca d’oro sia in Italia che in America, tra innovazioni sorprendenti e meditati ritorni alle più antiche tradizioni.
Il giardino esige un accordo fondamentale tra la mente che inventa, proiettandosi nel futuro, e il corpo che esegue, adagiandosi ai ritmi delle stagioni e alle leggi, al tempo stesso immutabili e sorprendenti, della vita vegetale. Questa è la castastrofe che Pia Pera ci racconta nel libro: il progressivo sfinimento che le impedisce dapprima di piegarsi per raccogliere un cespo d’insalata nell’orto, e che finirà per costringerla a faticose visite in sedia a rotelle in quello che fino a poco tempo prima considerava quasi come un’estensione del suo corpo, o il frutto di una simbiosi. E proprio nel momento in cui ciò che aveva progettato per la sua vita, tagliandosi alle spalle molti ponti, si rivela rapidamente impraticabile, giunge all’autrice il soccorso di una poesia di Emily Dickinson, il cui primo verso, «I haven’t told my garden yet», fornisce al suo libro il titolo.
Quella di Emily Dickinson è una grande meditazione sulla mortalità. Se è vero che presto, troppo presto anche lei «penetrerà dentro l’Ignoto», come farà l’amato giardino a comprendere che la sua giardiniera non verrà più a curarlo? Meglio nascondergli la verità, meglio nasconderla anche all’ape che ronza fra i cespugli, alle foreste e alle praterie dove Emily ha amato passeggiare. Che non si faccia parola della morte, insomma, la cui coscienza lancinante è un appannaggio esclusivamente umano. Che il giardino non venga turbato dalla notizia che chi tanto l’ha amato e accudito è prigioniero di un destino ben diverso dal suo.
Sarà importante osservare, a questo punto, che molti libri affini per l’argomento a quello di Pia (libri anche molto belli e capaci di scuotere profonde emozioni) ci raccontano di una saggezza, o perlomeno di un nuovo e faticato accordo con la vita, che seguono alla scoperta della malattia e delle sue conseguenze. Tutto ciò che viene prima del trauma potrà essere rimpianto, ma ormai è relegato nel regno dell’inconsapevolezza, dell’approssimazione, della mancata capacità di decifrare gli eventuali segnali provenienti dal futuro. Il grande archetipo dei racconti di malattia è quello della caduta sulla via di Damasco, non perché necessariamente venga implicata una conversione, ma perché quell’evento genera una metamorfosi radicale, come un’iniziazione e dunque una seconda nascita conseguente a una morte simbolica.
Pia Pera, però, si porta dietro un’esperienza umana e artistica che la costringe a sovvertire questo schema classico. In qualche modo, che sicuramente non è stato del tutto cosciente, tutta la sua vita, anche quella trascorsa in salute, è consistita in una serie di rinunce e di distacchi, a partire dalla sua identità di scrittrice e di traduttrice di tanti capolavori della letteratura russa (citerò solamente le sue memorabili, efficacissime versioni dell’Onegin di Puškin e di Un eroe del nostro tempo di Lermontov).
Il giardino, in questo percorso d’esistenza, ha assunto il ruolo di manifestazione concreta di un desiderio di solitudine che non escludendo l’amore per il prossimo, concedeva allo spirito quella libertà che si ottiene solo sciogliendo o allentando gli innumerevoli vincoli sociali e psicologici che sono le sbarre delle nostre prigioni. E dunque si potrebbe pensare che Pia sia sempre vissuta pensando alla morte, come si propone di fare Prospero alla fine della Tempesta. Ma nessuno ci dirà mai se Prospero in questo modo sia arrivato più sereno di fronte al grande salto.
La verità è che l’unica saggezza sembra consistere nel renderti conto che ogni saggezza, alla prova dei fatti, possiede la stessa forza di chi l’ha coltivata. «Com’è che tutto questo non è stato chiamato col suo nome, paura della morte?», si chiede Pia mentre ripensa a sogni ricorrenti e molto lontani ormai nel tempo. «Com’è che avevo sempre creduto di non averne paura?». Durante le notti che sembrano interminabili, questa paura sembra dilagare come un’onda densa e scura nella mente di Pia. E noi pian piano, pagina dopo pagina, ci rendiamo conto che una filosofia, una terapia, una pratica di meditazione che pretendessero di annullare la fragilità di uno spirito affacciato sul vuoto non sarebbero altro che chiacchiere di fanatici.
È proprio perché non sa essere saggia fino in fondo che Pia può regalarci le sue lancinanti intuizioni terminali, può comunicarci qualcosa della «limpidezza dell’essere soli al mondo». Leggendo questo libro, ho immaginato la nostra vita come un grande transatlantico, con tanta gente che lavora, o mangia nelle sale ristorante, o dorme inconsapevole in cabina. E ho pensato a Pia, ancora su questa grande nave, ma al limite estremo della prua, affacciata sull’aperto, investita dalle raffiche della tempesta. Ancora ama ciò che ha amato, ancora ha paura, e se fosse in grado di scegliere l’ultimo pensiero, questo andrebbe a Macchia, la sua adorata cagnolina, molto più che a Dio, o al Nulla, o a una delle tante parole di cui ci riempiamo la bocca senza che significhino realmente qualcosa.
Prima o poi, tutti noi che viaggiamo in questa nave prenderemo il posto di Pia. E chi ha letto il suo libro gliene sarà grato come di un dono personale, di un amuleto, di una mappa per evadere dal recinto della disperazione.
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martedì 5 aprile 2016

Lo stupore contro la banalità

Lo scrittore-filosofo Lars Gustafsson, i cui romanzi sono tradotti in Italia da Iperborea, è morto sabato all'età di 80 anni. Ossessionato dal tema dell'identità del soggetto, fautore della meraviglia al posto della realtà, è autore di un ciclo americano ambientato in Texas, di «Morte di un apicultore» e «L’uomo sulla bicicletta azzurra»

 

[Ingrid Basso su "il Manifesto" del 05/04/2016]

lunedì 4 aprile 2016

Gato Barbieri



Nonostante gli acciacchi dell'età e il cuore malato, suonava ancora in questi anni, applaudito dai tanti fan in scena al Blue Note, a New York che ormai era la sua casa, Leonardo Barbieri, 'Gato' come lo chiamavano tutti fin dagli anni '50, quando giovanissimo nella sua Buenos Aires saltava come un gatto da un club all'altro, da un'esibizione all'altra con il suo sax latino capace di parlare alla testa e al cuore e di turbare gli animi come nella colonna sonora dell'Ultimo Tango di Bertolucci, quella che gli valse nel 1972 un meritatissimo Grammy. Argentino di Rosario, figlio di un carpentiere con la passione del violino, el Gato aveva 83 anni e da poco era stato operato per un by pass al cuore. Una bronchite gli è stata fatale, ha raccontato la moglie Laura, madre del suo unico figlio Christian, che compirà 18 anni fra poco. Ma la vita è stata generosa con lui, la musica che ha seguito e onorato instancabile ("Bisogna fare pratica,fare pratica, fare pratica" ripeteva ai giovani musicisti) lo ha ripagato con un successo che dagli anni Sessanta in poi non lo ha mai lasciato, 35 dischi e incontri musicali importanti, collaborazioni con tutti i grandi nomi, da Carlos Santana a Miles Davis, solo per citarne due, in Italia con Pino Daniele e Antonello Venditti. Indipendente e appassionato, il cappellaccio a falde nero sempre in testa di palco in palco, Barbieri aveva girato il mondo, arrivando a Roma negli anni Sessanta con Laura, la prima moglie. Suo, per esempio, è l'assolo di Sapore di Sale di Gino Paoli, arrangiato da Ennio Morricone. Ma in Italia aveva suonato anche con Dan Cherry e lavorato parecchio anche per il grande cinema, con Bertolucci, Montaldo, Pasolini. Ed è proprio con il cinema, grazie a Ultimo Tango, che arriva per lui la notorietà mondiale. "Bernardo voleva una melodia sensuale. - ha raccontato in una intervista -Mi ha detto, 'non voglio una musica che sia troppo Hollywood ma neanche troppo europea, che è più intellettuale. Voglio una via di mezzo'". Da sempre convinto che musica sia prima di tutto incontro, continuamente alla ricerca di novità e di nuovi stimoli, ha prestato il suo sound per pagine importanti, collaborando con musicisti come Santana e Davis, appunto, ma non solo. Per Venditti ha suonato tra l'altro l'assolo in 'Modena', con Pino Daniele, di cui era amico, ha lavorato in Ferryboat e in altri diversi brani, partecipando in particolare ad Apasionado. Negli anni Ottanta la morte per malattia del prima moglie Michelle, lo aveva distrutto e fermato. Si era risposato con Laura nel '96 e da allora aveva ripreso ad esibirsi. Lo scorso novembre per lui l'omaggio alla carriera ai Latin Grammy. Al posto dei fiori, la famiglia ha chiesto donazioni per una fondazione no profit che aiuta giovani newyorchesi senza fissa dimora

domenica 3 aprile 2016

Empatia e nudità dell’allestimento

[Claudio Gulli da "il Manifesto" del 3/04/2016]
Philippe DuboŸ, «Carlo Scarpa. L’arte di esporre», Johan & Levi. Klee alla Biennale ’48, Bellini al Ducale nel ’49, Mondrian alla Gnam, ’56... L’architetto veneziano dialogava fitto e cresceva con i «suoi» artisti
Attorno al nome di Carlo Scarpa (Venezia, 1906 – Sendai, Giappone, 1978), autore di allestimenti fra i più apprezzati del Novecento italiano, si è ormai generato un alone di leggenda. Merito doppio, probabilmente: di un’intramontabile seduzione delle sue soluzioni e di una vicenda critica che non accenna a affievolirsi. Ora sull’architetto riprende la parola Philippe Duboÿ, in un volume opportunamente tradotto dal francese da Johan & Levi (Carlo Scarpa. L’arte di esporre, prefazione di Patricia Falguières, traduzione di Rossella Rizzo, pp. 268, euro 25,00). Si scopre che tutto ha inizio con un radicamento, «forse sono proprio nato veneto», «c’è un certo bizantinismo in me, un’analisi spietata del particolare» e anche la sicurezza della civiltà fiorentina viene accantonata: «non è tanto partecipe del mio spirito» (da una trasmissione televisiva, Un’ora con Carlo Scarpa, 1972 – fra le poche testimonianze, orali o scritte, dell’architetto). Meglio imparare dalla «scuola» un’umiltà, un rispetto per la materia, un senso di eleganza. Questo ragazzo viene iscritto all’accademia dal padre, maestro elementare (la madre, sarta, è già morta quando il figlio ha tredici anni), perché «disegna benissimo». Diventa l’allievo prediletto di un professore di architettura, Guido Cirilli, che dal ’26 lo recluta e per tutta la vita Scarpa insegnerà allo IUAV.
La prospettiva tuttavia è tutt’altro che provinciale. «Trovare un volume intitolato Vers une architecture» di Le Corbusier (1923) «fu un’apertura dell’anima» (da una conferenza del ’76, L’architettura può essere poesia?). Per chi ragionava con il Canal Grande negli occhi, la possibilità di costruire con nuovi materiali, quali ferro e cemento, significava rompere con l’immagine di una città imbalsamata «fra una lirica di Byron e una pagina del Fuoco dannunziano» (Edoardo Persico, su «Casa bella», ’32). Scarpa aderisce al movimento razionalista (’31), guarda con attenzione alla Vienna modernista, in particolare agli allestimenti di Josef Hoffmann, che per primo smorza la luce zenitale con dei velari, all’esposizione del Werkbund austriaco (’30). La soluzione diverrà un marchio di fabbrica del veneziano (Salone centrale alla Biennale del ’48; mostra di Antonello a Messina, ’53). Ma il valore aggiunto, sin da subito, arriva dalla consuetudine al disegno di progetto: per le aziende di Murano, Scarpa realizza oggetti in vetro che vengono premiati alle Triennali degli anni trenta. Una volta Frank Lloyd Wright, nel ’51, andò in visita alla vetreria Venini: scovati dei vasi che lo entusiasmavano, li acquistò senza battere ciglio. Ignorava chi fosse l’autore: era Scarpa – e la stima, con l’architetto americano, era reciproca (l’aneddoto lo racconta Zevi, sempre in TV, nel ’72). L’umile professore sta forse affinando, studiando le forme nel vetro, una ricerca di levigatezza, un’ulteriore purificazione dai decorativismi, un culto per trasparenze e chiarezze, la convinzione che la perfezione dipende dal lavoro di fino e dall’abnegazione da amanuense; e rifugge così da ogni impianto teorico, da ogni gabbia di gusto.
I sedici capitoli congegnati da Duboÿ sono dedicati a singoli allestimenti e strutturati a partire da documenti, che scorrono accanto a un apparato illustrativo davvero godibile. L’indice è puntato sulle mostre, non sui musei – per orientarsi sono utili le cronologie ragionate in appendice. Rispetto allo Scarpa maior (che fu quello di mostre e musei), risultano quindi a fuoco angolature su snodi essenziali. Si può verificare, ad esempio, la crescita dell’architetto a confronto con certi artisti esposti, antichi e moderni. È archetipico, quasi traumatico, il dialogo con Arturo Martini. Lo scultore induce l’architetto a comprendere e saper riproporre, a una personale alla Biennale del ’42, la sua tensione su luce e materia. La dislocazione dei basamenti su diversi livelli, l’accrescimento dello spazio fra le sculture, l’effetto dei chiari che ora agiscono sul marmo ora sulla pietra: tutto risponde a una logica emotiva. L’architetto non si sottrae al rischio: nel collocare, sa che sarà costretto a interpretare. Dirà di aver sempre provato, davanti a un’opera, un suo privato «sentimento critico». Non sempre il gioco funziona (per esempio con Fontana alla Biennale del ’66) – e Scarpa lo ricorda, sempre nel ’72: «molte volte ho avuto anche contrasti»; d’altronde alle Biennali l’architetto lavora per trent’anni. Perciò il passato preserva da qualche fatica: «c’è una differenza enorme: nei musei gli autori sono tutti morti». E nel fermento della ricostruzione, che implica la risistemazione delle grandi gallerie non meno che l’allestimento di mostre epocali, un’intera generazione di architetti può sfruttare occasioni irripetibili.
Il nuovo corso veneziano comincia chiaramente dalle Gallerie dell’Accademia (’45-’47). Il modernismo dell’allestimento di Moschini e Scarpa diviene qui radicale: ogni fonte di distrazione – fastose cornici non originali, «vecchie stoffe a fiorami» – viene eliminata. I grandi teleri del Carpaccio con le Storie di Sant’Orsola (1490-1500), prima alloggiati entro stalli e dossali non pertinenti, che intendevano ricostruire l’ambiente della Scuola da cui provenivano, sono ora esposti a poca distanza dal suolo. Arriveranno esiti anche più raffinati di questo primo, drastico tentativo, ma di fatto è solo da ora che i musei italiani, transitati da rade risistemazioni fra il tardo Ottocento e le guerre, smettono di essere quei depositi di cenere che il Futurismo intendeva provocatoriamente spargere al vento. Scarpa, dal canto suo, riesce al massimo grado quando è alta l’empatia con ciò che espone. La sala dedicata a Paul Klee alla Biennale del ’48 e la successiva mostra di Giovanni Bellini a Palazzo Ducale (’49) – entrambe sotto la direzione di Rodolfo Pallucchini – sono vertici espressivi. Teorie di pannelli bianchi, interrotti da sporgenze o da stacchi in nero, inquadrano opere che sempre si cerca di far «parlare da sole». Anche Longhi, forse inizialmente contrariato («un principio di allestimento accettabile seppure ardito»), procede con una benedizione: «questo audacissimo metodo di presentazione potrà, in alcuni casi, provocare polemiche ma alla fine, ne sono certo, sarà ampiamente imitato» (recensione alla mostra di Bellini nel «Burlington»).
Giustamente Duboÿ non si sofferma sui capitoli più noti, quello dell’immersione nella luce e nelle corti siciliane (Antonello a Messina; Palazzo Abatellis a Palermo, ’53) o delle articolazioni spaziali, eccellenti soprattutto per la scultura, di Castelvecchio a Verona (’58-’74). Mette in luce invece l’allestimento della mostra di Mondrian alla GNAM di Roma (’56), dove Scarpa disegna una pianta che somiglia a una tela suprematista: trucco che rimane «un segreto da carbonari» (Carandente, che segnala l’architetto alla Bucarelli, dopo l’esperienza siciliana). I quadri dell’olandese sono sfalsati rispetto ai supporti ma le asimmetrie scarpiane intanto purificano il molosso eclettico della GNAM. Poi l’allestimento culla, su una base di bianco grezzo, quel lungo lavoro di composizione su linee e colori. La variatio implicita nella regola pittorica doveva risultare magnificamente esaltata, la mostra è un perfetto «commento critico» all’artista; per una volta, sono tutti d’accordo nelle lodi, da Brandi a Venturi Lionello. Solo «Proust, si disse a Roma, non l’avrebbe visitata per paura di un attacco d’asma» (Argan, in un’ammiccante recensione anonima).
L’occasione di intervenire ancora sul Canal Grande arriva quando a Palazzo Grassi si allestisce Vitalità nell’Arte (’59). Sotto gli auspici critici di Willem Sandberg, la nuova koiné occidentale, che radunava Informale e COBRA, doveva convivere con lampadari e saloni settecenteschi e necessitava nuovamente, a suo modo, di silenzio attorno. È quindi nell’arte del dosaggio fra soavità personale, esigenze degli spazi e sovranità della domanda di artisti o curatori che va misurato l’estro progettista di Scarpa. Raramente è andato a caccia di formule; più spesso lo scoviamo in preda a problemi, che talvolta risolve ricorrendo a un incantesimo. Fra i tanti esempi possibili, basta la finestra ad angolo nella gipsoteca canoviana a Possagno (’55-’57), che fa da copertina al libro. Da questo buco su tre pareti, «il giorno dell’inaugurazione era un azzurro bellissimo, e sembrava – i cristalli erano molto tersi, ben puliti – che il cielo fosse tagliato a fette» (’72).

sabato 2 aprile 2016

APRILE

Aprile nel primitivo calendario latino era il primo mese dell'anno. Divenne il secondo nel calendario di  Romolo e il quarto in quello di Cesare. Tale rimane ancora oggi ed è mese festoso, che apre i fiori e il cuore degli uomini.
In questo mese gli antichi romani festeggiavano Cibele. Nel ventunesimo giorno celebravano il Natale di Roma, perchè secondo la leggenda, Romolo avrebbe ammazzato Remo e cominciato a fabbricare la città eterna proprio in quella data.
Il Regno d'Italia, dopo che nel 1870 ebbe Roma per capitale, dichiarò sollenità civile il 21 aprile di ogni anno, a cominciare dal 1871. Il fascismo, che aveva adottato significati e simboli della romanità,  diede particolare importanza a quella data, senza far notare che la giornata era importante per i romani anche a cagione dei Vinalba Urbana, cerimonia di assaggi del vino fatto nell'autunno precedente.
"Aprile / esce la vecchia dal covile" sentenzia un vecchio proverbio. E' finito infatti l'inverno e sta per avanzare tra i fiori la primavera, proprio come l'ha immaginata in un famoso dipinto di Botticelli.
"Or s'udrà" scrive il Manzoni nella sua canzone Aprile 1814 "ciò che sotto il giogo antico/sommesso appena esser potea discorso/al cauto orecchio di privato amico". Poteva finalmente, lo scrittore, partiti i francesi, gridare forte contro il dispotismo napoleonico. Ma il 28 aprile di quell'anno, al posto dei francesi arrivarono in Lombardia gli austriaci, altrettanto dispotici, e il Manzoni dovette discorrere ad orecchi ancor più cauti. Il Porta, dopo quel cambio di padrone, maledicendo francesi ed austriaci,  scrisse: "M'avii  ridutt al punt puttana / de podè nanca vess indiferent / sulla scerna del boia che ne scanna".
Mese dunque non solo di fiori e di fresche ariette, ma anche di cambiamente e di malanni, l'aprile, nel quale non conviene scoprirsi in alcun modo: "April / nanca un fil" dice il proverbio.
[Piero Chiara "Dodici mesi, un anno"]

venerdì 1 aprile 2016

Zaha Hadid, la forma sublime del mondo

 [Pippo Ciorra su "il Manifesto" 1/04/2016]
Architettura. Addio a Zaha Hadid, geniale e intransigente «archistar» irachena. Un successo planetario da Hong Kong a Berlino, passando per il MAXXI di Roma e l’ Evely Grace Academy di Londra

È arrivata ieri pomeriggio, totalmente inaspettata, la notizia della morte improvvisa di Zaha Hadid. Era ricoverata a Miami per una bronchite e nella mattinata è stata stroncata da un infarto. Non c’erano avvisaglie e ufficialmente Zaha godeva di buona salute. Nata a Baghdad nel 1950, aveva prima studiato matematica a Beirut e poi, dal 1972, si era trasferita a Londra per studiare all’Architectural Association, in quel momento il centro più vivace e progressivo della ricerca architettonica. Qui era entrata in contatto con due giovani molto promettenti, Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis, che dopo la laurea del 1977 aveva raggiunto nello studio Oma (Office for Metropolitan Architecture). Dal 1979 Hadid, mossa da un’energia creativa non comprimibile in un collettivo, apre a Londra il suo studio professionale, «Zaha Hadid Architects», che guidava ancora oggi con enorme successo insieme al partner associato all’inizio del secolo, Patrik Schumacher.
Cresciuta nell’ambito della generazione più creativa del dopoguerra e nell’ambiente culturale più stimolante del suo tempo, Hadid raggiunge la notorietà nel 1983 con il progetto di concorso per l’Honk Kong Peak Club, scelto e mai realizzato, ma capace di mostrare al mondo la qualità pittorica, matematica e visionaria a un tempo della talentuosa progettista. Da quel momento la sua carriera è una crescita senza rallentamenti. Prima alcuni piccoli cameo, a partire dal Kurfusterdam di Berlino, del 1986, e dalla bellissima Fire Station del campus Vitra (1993), poi gli edifici più importanti, corrispondenti alla maturità progettuale e professionale. Tra questi il MAXXI, inaugurato nel 2009 ma disegnato nel 1999, e il centro ricerche della Bmw a Lipsia, completato nel 2003.
Impegnata in diversi cantieri in Italia – la stazione navale di Salerno, quella dell’Alta Velocità ad Afragola, un complesso residenziale a Milano – Hadid ha certamente realizzato con il museo romano uno dei suoi progetti migliori (e più amati), sia per la potenza dinamica ed espressiva delle gallerie che «scorrono» tra via Guido Reni e via Masaccio che la grande qualità della sua «piazza», diventato davvero uno spazio pubblico centrale nella vita della città.

zahahadid
Nel 1988 Zaha Hadid era stata inclusa nei «magnifici sette» (Oma, Eisenman, Libeskind, Gehry, Tschumi, Coop Himmelblau) della mostra MoMA sulla Deconstructivist Architecture, certificando la sua appartenenza alla massima aristocrazia architettonica del pianeta: la stessa élite che di lì a qualche anno si sarebbe trasformata nella piccola tribù delle archistar, gli architetti autorizzati ad aspirare a uno status economico e di celebrità paragonabile a quello dei divi di mondi molto più mediatici. Il 2004 è un altro turning point per la carriera di Zaha, che è la prima donna a vincere il «Pritzker Prize» e che lascia sempre più spazio nello studio – e nelle sue escursioni didattiche – alle ricerche sull’architettura parametrica e digitale, quella basata su forme continue e calcoli matematici che non potrebbero realizzarsi senza computer.
Accetta in questo il contributo forte del suo socio Schumacher ma dà anche spazio alla sua prima passione universitaria, la matematica. Da allora la produzione e l’importanza dello studio Hadid crescono senza sosta, espandendosi – anche e soprattutto negli anni della crisi economica – grazie all’irresistibile appeal che il suo «stile» esercita presso i grandi committenti dei paesi emergenti. Nascono così i musei di Baku e Astana, gli interventi negli Emirati, l’Opera di Guangzhou, il Design Center di Seoul e numerosi altri progetti dalle forme sempre più sorprendenti e dalla dimensione sempre più grande. Nel 2011 Zaha sfata anche il «tabù Londra» – violato fino ad allora solo con un allestimento dentro la cupolona del Millennio – e realizza l’Acquatic Centre per i giochi Olimpici, un progetto intelligente e pronto a ridursi a struttura di quartiere dopo le Olimpiadi. I riconoscimenti londinesi proseguono con due «Stirling Prize», uno appunto per il MAXXI e l’altro per un progetto potente come la Evely Grace Academy, sempre a Londra.
Nel 2016 è ancora la scena architettonica inglese a «risarcirla» per un successo in patria mai considerato sufficiente. I tempi (anche economici) sono tiranni e l’architettura di Zaha, mai molto low cost, era stata negli ultimi tempi al centro di una polemica per uno stadio olimpico che la città di Tokyo, forse ripensandoci un po’ troppo tardi, non vuole costruire. Con la Hadid se ne va una protagonista scorbutica e travolgente dell’architettura di una generazione sublime, una progettista dal talento vero e dalla capacità professionale infinita, a dispetto (e forse in ragione) della sua intransigenza. A conti fatti è una fortuna che abbia realizzato a Roma una delle sue opere migliori e che la città, in un lampo di saggezza, non abbia riservato al suo edificio la solita accoglienza sospettosa e ostile che riserva alle opere moderne. Sleep well.

lunedì 21 marzo 2016

85° anniversario della nascita di Alda Merini



Ogni mattina
Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiato ebrietudine di vita,
ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d'angoscia
che non si dissolve.
allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale poggio i piedi nudi.
di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perchè anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfiori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita vogliose d'amore.

Alda Merini, poetessa milanese, nasce nel capoluogo lombardo il 21 marzo 1931.
Minore di tre fratelli, le condizioni della famiglia sono modeste. Alda frequenta le scuole professionali all'Istituto "Laura Solera Mantegazza"; chiede di essere ammessa presso il liceo Manzoni, ma - sembra incredibile - non supera la prova di italiano. In questi anni dedica molto tempo anche allo studio del pianoforte.
Spinta da Giacinto Spagnoletti, suo vero scopritore, esordisce come autrice alla tenera età di quindici anni. Spagnoletti sarà il primo a pubblicare un suo lavoro, nel 1950: nella "Antologia della poesia italiana 1909-1949" compaiono le sue poesie "Il gobbo" e "Luce". 
Nel 1947 incontra quelle che definirà come "prime ombre della sua mente": viene internata per un mese all'ospedale psichiatrico di Villa Turno.
Nel 1951, anche su suggerimento di Eugenio Montale, l'editore Scheiwiller stampa due poesie inedite di Alda Merini in "Poetesse del Novecento".
In questo periodo frequenta per interesse di lavoro ma anche per amicizia Salvatore Quasimodo.
Sposa Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano, nel 1953. Esce poi il primo volume di versi intitolato "La presenza di Orfeo". Due anni dopo publica "Nozze Romane" e "Paura di Dio". Sempre nel 1955 nasce la primogenita Emanuela: al medico pediatra dedica la raccolta "Tu sei Pietro" (pubblicata nel 1961).
La poetessa inizia poi un triste periodo di silenzio e di isolamento: viene internata al "Paolo Pini" fino al 1972, periodo durante il quale non manca comunque di tornare in famiglia, e durante il quale nascono altre tre figlie (Barbara, Flavia e Simonetta).
Dopo alternati periodi di salute e malattia, che durano fino al 1979, la Merini torna a scrivere; lo fa con testi intensi e drammatici che raccontano le sue sconvolgenti esperienze al manicomio. I testi sono raccolti in "La Terra Santa", pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1984.
Nel 1981 muore il marito e, rimasta sola, la Merini dà in affitto una camera della sua abitazione al pittore Charles; inizia a comunicare telefonicamente con il poeta Michele Pierri che, in quel difficile periodo del ritorno nel mondo letterario, aveva dimostrato numerosi apprezzamenti sui suoi lavori.
I due si sposano nel 1983: Alda si trasferisce a Taranto dove rimarrà tre anni. In questi anni scrive le venti "poesie-ritratti" de "La gazza ladra" (1985) oltre ad alcuni testi per il marito. A Taranto porta a termine anche "L'altra verità. Diario di una diversa", suo primo libro in prosa.
Dopo aver nuovamente sperimentato gli orrori del manicomio, questa volta a Taranto, torna a Milano nel 1986: si mette in terapia con la dottoressa Marcella Rizzo alla quale dedicherà più di un lavoro.
Dal punto di vista letterario questi sono anni molto produttivi: naturale conseguenza è anche la conquista di una nuova serenità.
Negli anni, diverse pubblicazioni consolideranno il ritorno sulla scena letteraria della scrittrice.
Nel 1993 riceve il Premio Librex-Guggenheim "Eugenio Montale" per la Poesia, come altri grandi letterati contemporanei prima di lei, tra i quali Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Franco Fortini.
Nel 1996 le viene assegnato il "Premio Viareggio" per il volume "La vita facile"; l'anno seguente riceve il "Premio Procida-Elsa Morante".
Nel 2002 viene pubblicato da Salani un piccolo volume dal titolo "Folle, folle, folle d'amore per te", con un pensiero di Roberto Vecchioni il quale nel 1999 aveva scritto "Canzone per Alda Merini".
Nel 2003 la "Einaudi Stile Libero" pubblica un cofanetto con videocassetta e testo dal titolo "Più bella della poesia è stata la mia vita".
Nel febbraio del 2004 Alda Merini viene ricoverata all'Ospedale San Paolo di Milano per problemi di salute. Un amico della scrittrice chiede aiuto economico con un appello che le farà ricevere da tutta Italia, e-mail a suo sostegno. La scrittrice ritornerà successivamente nella sua casa di Porta Ticinese.
Nel 2004 esce un disco che contiene undici brani cantati da Milva tratti dalle poesie di Alda Merini.
Il suo ultimo lavoro è datato 2006: Alda Merini si avvicina al genere noir con "La nera novella" (Rizzoli).
Alda Merini muore a Milano il giorno 1 novembre 2009 nel reparto di oncologia dell'ospedale San Paolo a causa di un tumore osseo.
In memoria della sua persona e della sua opera, le figlie Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta, hanno dato vita al sito internet www.aldamerini.it, un'antologia in ricordo della poetessa, un elogio all'"ape furibonda", alla sua figura di scrittrice e madre.
Nel 2016, in occasione della ricorrenza della sua nascita, Google le ha dedicato un logo.